Nell’aprile del 1969 a Battipaglia giunge la notizia dell’imminente chiusura di due grosse aziende della città: la manifattura dei tabacchi e lo zuccherificio. Per il 9 aprile viene indetto un corteo di protesta: già dalle prime ore del giorno, alcune centinaia di persone si radunano e, scortati da polizia e carabinieri, cominciano a muoversi in corteo al grido di "Difendiamo il nostro pane" e "Basta con le promesse".

Nel tardo pomeriggio si arriva allo scontro decisivo: il corteo incanala la propria rabbia contro il commissariato di via Gramsci, dentro cui si sono asserragliati un centinaio di poliziotti e carabinieri che iniziano a sparare sulla folla, uccidendo Teresa Ricciardi, giovane insegnante che seguiva gli scontri dalla finestra della propria abitazione, e lo studente diciannovenne Carmine Citro. Moltissimi i feriti.

Scriverà Rassegna Sindacale il 1° maggio successivo (n. 158-159): “Se qualcuno aveva avuto un dubbio che i morti di Avola fossero una tragedia isolata dovuta alla fatalità e non destinata a ripetersi, i morti di Battipaglia sono tragicamente venuti a togliere ogni incertezza. Non si muore per caso, non si spara per caso nelle lotte di lavoro, ma per una precisa concezione e un colpevole uso della polizia in servizio di ordine pubblico e specialmente nei conflitti di lavoro. Ai lavoratori che, come nel caso di Battipaglia, chiamati unitariamente dai sindacati a protestare contro la chiusura di uno zuccherificio e ad opporsi al licenziamento delle seicento operaie del tabacchificio, esprimono, e stringono intorno a sé, la protesta e la collera di tutta una città, di tutta una zona per la degradazione economica e sociale cui la condanna una politica; a questi uomini e donne non si è capaci di dare lavoro ma si riesce troppo spesso a trovare le pallottole che ne ammazzano qualcuno, come accadde ad Avola, come accadde a Ceccano. Fra Ceccano e Avola erano passati sei anni, fra Avola e Battipaglia quattro mesi e mezzo. Cresce nel Paese la tensione sociale e cresce il ritmo delle uccisioni. In questa situazione s’impone il disarmo immediato della polizia in servizio di ordine pubblico e particolarmente durante le lotte di lavoro, disarmo già ripetutamente chiesto dalla Cgil. È questo un problema di gravità e urgenza assoluto, al quale non possono, non debbono sfuggire le forze politiche, soprattutto non può e non deve sfuggire il governo, che risponde delle uccisioni come risponde di tutte le aggressioni di cui la polizia si rende continuamente colpevole, come risponde della repressione che colpisce i lavoratori e gli studenti e che è diventata ormai un metodo generale e costante. Per poter, per voler lavorare si rischia ancora, in questa nostra repubblica fondata sul lavoro, di morire ammazzati. E rischiano di morire ammazzati i cittadini che scendono nelle strade a protestare contro le degradanti condizioni di vita che sono costretti, e non vogliono più, sopportare. Questo stato di cose deve finalmente finire. Contro questo stato di cose, contro la violenza incivile e sistematica della polizia le confederazioni sindacali hanno proclamato lo sciopero generale unitario di tre ore che si è svolto l’11 aprile registrando una partecipazione dura e totale. Di questo sciopero, e di tutte le altre azioni sindacali che lo, hanno accompagnato rivelando la volontà dei lavoratori di opporsi con assoluta fermezza alla violenza, ci auguriamo che si sia capito bene, dove lo si deve capire, il significato. Con i due di Battipaglia, sono novanta gli italiani uccisi nel dopoguerra dalla polizia durante conflitti di lavoro e in «operazioni di ordine pubblico». Ora basta davvero”.

“Il ministro degli Interni si deve dimettere”, sarà la perentoria affermazione della direzione del Pci. “Basta con le armi: occorrono nuovi indirizzi di politica economica e sociale”, dirà Agostino Novella, mentre raccogliendo l’appello unitario di Cgil, Cisl e Uil, l’11 aprile - giorno dei funerali delle vittime - l’Italia si ferma.

Racconta Giovanni Falcone, operaio alla Fiat dal 1968 al 1984: “Dopo lo sciopero delle pensioni ci fu lo sciopero per i fatti di Battipaglia. Non è stato uno sciopero lungo e la cosa impressionante furono i capi che facevano politica e davano la disciplina. Quando ci fu l’ora dello sciopero, noi ci fermammo tutti. I capi passavano da noi uno per uno e dicevano: «Lei cosa fa?» (ci davano del lei, mentre tra operai ci si dava tutti del tu), «Lei sciopera?» e, a secondo della risposta, ci dividevano in gruppi. Chi scioperava da una parte e chi non scioperava dall’altra. Io non ho avuto dubbi e mi sono messo con quelli che scioperavano, che erano la maggioranza. Ma furono tanti anche quelli che non scioperarono, nonostante i fatti gravissimi e che molti di noi fossero del sud. Ma io credo che quando c’è la paura non conta il fatto di essere di uno stesso Paese: se hai una coscienza di classe e politica scioperi per chiunque, per qualunque cosa e dovunque accada, anche per un paese lontano, come poi è successo dopo”.

Si legge nel comunicato unitario delle tre confederazioni: “Dinanzi agli eventi luttuosi che ancora una volta hanno registrato la morte di cittadini inermi vittime del ricorso incivile alle armi da fuoco, le tre organizzazioni, nell’elevare la loro vibrata protesta per questa ennesima manifestazione di violenza hanno chiesto il severo accertamento delle responsabilità. … l’eccidio è stato perpetrato da forze di polizia intervenute armate contro manifestazione popolare di protesta”.

Molto dura sarà la reazione del ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini: “L’ordine pubblico va seriamente tutelato in uno stato democratico, ma il problema è quello degli strumenti e dei mezzi. La tragedia di Battipaglia ripropone drammaticamente la questione e ne richiede l’attenta considerazione da parte delle forze politiche democratiche”.

Non meno verticale la presa di posizione di Sandro Pertini, presidente della Camera dei deputati: “Onorevoli colleghi, sono certo di interpretare il sentimento vostro, se rinnovo da questa tribuna il profondo cordoglio per le vittime dei tragici fatti di Battipaglia, fatti che hanno scosso e turbato la coscienza dell'intera nazione. Ma non basta manifestare la nostra pietà per le vittime e la nostra costernazione per quanto è accaduto. Dalla nostra qualità di rappresentanti del popolo ci deriva un preciso dovere: impedire che fatti simili possano ancora ripetersi .... Solo pensando ai vivi non sicuri del loro domani possiamo degnamente onorare i morti, povere vittime innocenti”.

Affermerà il futuro ministro del Lavoro Donat-Cattin nella seduta del 16 aprile: “La polizia è uno strumento per vigilare e per intervenire con la forza dove la legge e le norme della civile convivenza non siano rispettate. Questo non solo per lo Stato italiano, ma, credo, per ogni Stato e in ogni condizione. Parlare di un tempo maturo per un diverso armamento della polizia nei casi prima indicati (cioè di manifestazioni politiche, sociali e sindacali), di un tempo maturo che si riscontrerebbe quando, come è stato qui detto da parte del governo, ci si trovasse sempre e in ogni circostanza di fronte ad un consolidato costume di non violenza, significa - in questo concordo perfettamente con quanto ha affermato l’onorevole Riccardo Lombardi - collocare il problema non già nei tempi lunghi, ma nei tempi inesistenti e porlo utopisticamente come problema, caso mai, di scioglimento delle forze di polizia poiché, nel momento in cui il costume della non violenza fosse generalizzato, non vi sarebbe bisogno né di vigilanza né di intervento per far rispettare la legge. La discussione non è sulla soppressione della polizia e sulla sua funzione, che è legata secondo me alla stessa natura umana e al modo in cui si esercita la sovranità dello Stato in qualsiasi condizione; la discussione è invece sui modi di intervento e di armamento …. Il gruppo politico egemone, qualunque esso sia, non può nel 1969 ordinare repressioni alla Bava Beccaris. Sarebbe travolto dalle sue stesse direttive. E nemmeno si può prevedere come normale o eccezionale, nel caso di manifestazioni sociali e sindacali, l’impiego di forze che siano addestrate per sparare sulla folla o su singoli gruppi. Quando così avviene, è inevitabile che si cerchino tutte le attenuanti, che si accampi la fatalità; ed è difficile trovare chi si assuma la responsabilità di quello che è capitato. Io mi riferisco ad una sua espressione, onorevole ministro, ancora di ieri : nessuno ha dato ordini di aprire il fuoco. E una volta che sia accaduto l’eccidio, come a Battipaglia, la legge è forse più rispettata di prima, anche verso la proprietà, verso i beni, eccetera? Noi vediamo che ogni volta è esattamente il contrario … (leggi tutto)”.

Brodolini, gravemente malato (morirà a breve), forza i tempi di approvazione dello Statuto dei lavoratori con una febbrile attività. Intanto la commissione Lavoro del Senato prepara ed il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge da presentare in aula, integrando il testo base di Brodolini e Giugni, con molti articoli ripresi dai disegni legge del Pci e dello Psiup, rafforzando la parte relativa ai diritti individuali dei lavoratori. In particolare viene introdotto l’art.18 che sancisce la giusta causa nel licenziamento individuale, attribuisce all’imprenditore l’onere della prova di fronte al giudice, impone - per le aziende con più di 15 dipendenti - l’obbligo di reintegro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo. Non passa, invece, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne e, tanto meno, dei nuovi organismi di base (i consigli di fabbrica) che si stanno formando nelle lotte aziendali.

L’11 dicembre il disegno di legge del governo è approvato in prima lettura dal Senato. Votano a favore i partiti di centro-sinistra e i liberali, si astengono - con opposte motivazioni - Msi da una parte, Pci, Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra. Il giorno dopo, 12 dicembre, esplodono le bombe alla Banca della Agricoltura a Milano: è la strage di Piazza Fontana.

VIDEO Battipaglia, autoanalisi di una rivolta

Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale