Consiglio di classe è il titolo del libro pubblicato da Ediesse, a cura di Angelo Ferracuti e Stefano Iucci, per la collana Carta Bianca. E' una raccolta di racconti sulla realtà della scuola italiana. "In questo libro - si legge nel sito della casa editrice - alcuni scrittori italiani, molti dei quali insegnanti nella vita, provano ad affrontare l’argomento in modo non ovvio. Ne esce fuori un ritratto a più voci inclemente e al contempo pieno di passione delle tante scuole che stanno nelle tante Italie: quelle dei maestri, dei professori, degli insegnanti che resistono al peggio". Pubblichiamo un estratto del racconto Indicativo presente di Marco Rossi-Doria.

Indicativo presente
pezzi da un taccuino


La prima volta che lo incontro, Gino ha dodici anni. Sta fuori dall’aula in una delle quattro scuole medie dove vanno i ragazzini dei Quartieri Spagnoli. Il sole entra dai finestroni della scuola che guardano verso il mare. E’ seduto accanto alla bidella nel corridoio. Canta a squarciagola una canzone neomelodica - in un dialetto rigato da strane incursioni prese dal gergo televisivo. La trovo becera questa canzone. E il tono della voce è insopportabilmente alto. Per disturbare quanto più possibile. Le parole cantate sono particolarmente tristi: la lei se n’è andata senza dire nulla e il suo lui soffre e si lamenta…. il solito blues. La bidella è lì per ammansirlo, contenerlo a fianco al banco posto nel corridoio… Gli versa addirittura il caffè messo su per i professori al cambio di ora. Cerca, con alterni risultati, di fargli abbassare la voce.

Gino è poi finito in carcere per una storia di scippi ripetuti. E’ uscito. Ora fa lavori saltuari. Porta caffè, fa traslochi con un’apecar, fa il cameriere a giornata per le cerimonie ai ristoranti, aiuta la mamma a pulire le scale dei palazzi, scartavetra per il cugino imbianchino, vende partite di vestiti rubati dai Tir. Mi fa una simpatia che non si sa. E’ per come è fatto, per come dice di sé; non lo so neanche io perché. Lo incontro spesso a uno degli incroci dove si passa e si sta. Mi abbraccia. Mi parla della sua volontà di emigrare. Si toglie gli occhiali scurissimi per dare senso alle parole. Non gli credo e lo guardo senza rispondere. Ma sorrido. Non riesce a staccarsi da qui. Ci vuole fegato ad andarsene. Davvero. Lui sorride del mio sorriso. Sa quello che penso. Passa Carla che ha due figli e ha imparato a gestire una tintoria insieme al marito dopo che per anni sembrava una piccola Nikita. Aveva tredici anni quando non era più andata a scuola. Ne ha ventitre. E’ una donna fatta, equilibrata nei giudizi come non si è spesso a questa età e da queste parti. Le chiedo di Carmine. Si è fatto cacciare da una squadra di serie C benché fosse un vero fulmine sulla fascia sinistra. E’ tornato a lavorare per una miseria dallo zio elettrauto. Non lo nomino ma quando sto fermo all’incrocio mi viene ogni volta di pensare a Salvatore. Che è morto a diciassette anni ammazzato per futili motivi. Non nomino neanche Sonia che lava scale dei palazzi. Né le due sue sorelle che si ammazzano di fatica nelle fabbrichette. So che a Gino non va di parlare di quella famiglia. Il gruppo si scioglie. Gino e Sonia si baciano sulle guance come fanno i vecchi amici. C’è a volte un garbo potente nei gesti degli incontri per strada. Mi baciano sulle due guance anche a me. Mi sono fatto più vecchio. Ho la barba che sembro “il vecchio e il mare”. Devo andarmela ad accorciare. Non sto più ogni giorno con questi ragazzi. Ma vivo nel loro quartiere e mi va sempre di incontrarli e parlare. Mi fermo nei luoghi dove passano. Aspetto. Mi guardo in giro. Vengo a sapere i fatti. I fatti: il destino concreto dei ragazzi che non volevano più andare a scuola quando avevano dodici, tredici anni. I fatti dieci anni dopo. Carlo ha imparato a fare il barbiere e ora ha un piccolo salone tutto suo. Mario gestisce un bar, chi l’avrebbe detto mai. Anna è emigrata al Nord. Come Susi. Come Antonio. Si emigra di nuovo da Sud a Nord in Italia. Nessuno ne parla. E, invece, Luca perché entra e esce di galera per reati di quattro soldi? Eppure non è affatto scemo ed era un ottimo meccanico. Mi piacerebbe prendere una volta la briga di visitarlo in carcere. Ma so che non lo farò. E che dire di Diego? Pareva uno sfessato. E fa trenta chilometri di mattina e di sera per andare in una fabbrichetta al nero. Sono poveri i ragazzi che ho seguito lungo questi anni. Poveri che lavorano o che non lavorano ma sempre, immancabilmente, poveri. Questo sono i miei ragazzi di dieci anni fa. In una città senza sviluppo da decenni. Con la politica che è quel che è.

La prima volta che incontro Gino il signor ministro mi ha appena approvato il progetto di “primo maestro di strada”. E così faccio ufficialmente, anche di mattina, quel che per due anni ho fatto per scelta volontaria solo il pomeriggio, dopo l’insegnamento nella mia classe di scuola elementare. Con decreto del ministero la mattina non insegno ma giro per le scuole. A vedere come stanno i ragazzi del quartiere quando sono in aula. O nei corridoi. Cosa dicono i loro insegnanti su quel che capiscono o imparano e come e perché e quanto… E quanti giorni sono assenti e quanti presenti. E quante volte fanno a casa i compiti o in parrocchia o presso il doposcuola privato e in che modo. E, per capire meglio queste cose, il pomeriggio conduco anche io un doposcuola presso l’associazione di quartiere.

Ma, poi, prendo sempre più frequentemente a girare a lungo per le vie e le piazze, per le sale giochi e per i luoghi dove avvengono gli incontri e le attività dei ragazzi. Cammino. Osservo le scorribande sui motorini agli incroci. Imparo a incontrare le storie. O studio come vengono in vita le partite, le squadre e gli arbitraggi lì dove si gioca a pallone fino a notte. O prendo a frequentare i luoghi “d’a’ fatica”: le officine, le mansioni del lavoro di strada, i servizi. Dove un mastro, un padrone, un parente fa il suo mestiere quale che sia; ed è anche nella necessità di avere a disposizione ragazzi o ragazze per funzioni ausiliarie o di supporto o di accompagnamento o di apprendistato. In cambio di denaro. Al nero. Meccanici, baristi, pizzerie e pizzaioli, camiciai e sarti, falegnami, salumerie e salumieri, friggitorie, discoteche, parcheggi abusivi, fabbriche di borse o di fiori finti o di ceramiche per le bomboniere, venditori a rate e a credito di maglierie e profumi, pulitrici di condominio, venditori di saponi, imbianchini, gommisti, panettieri, barbieri, elettricisti, trasportatori, fabbri, idraulici, ferramenta, parrucchieri, tintorie, muratori, tappezzieri. Poi perdo tempo fuori dai meccanici dove i ragazzi si adunano per aggiustare i motori o presso i muretti dove si trovano per organizzare l’andata alla partita la domenica o la pizza in comitiva. O agli incroci più frequentati, dove si fermano volentieri a parlarti al volo. E dove si incontrano gli sguardi tra ragazze e ragazzi sui motorini nei lunghi corteggiamenti.

So che sto cambiando mestiere. Non sto insegnando a leggere, scrivere e far di conto. Seguo i ragazzi in quanto giovani cittadini. E non più come alunni. Cittadini che crescono al contatto con molte esperienze e altre cose del mondo. Sono cose fuori dalla scuola. Occasioni o la mancanza di occasioni. E sto guardando giovani cittadini che esplorano il loro futuro mondo da dentro e non di lontano. Giovani cittadini. Muniti di volontà e circondati da penurie e incertezze. Li seguo per quello che apprendono ed imparano oltre e fuori le mura delle scuole. O per quello che usano della scuola fuori dalle sue mura. O per le rare volte che sono ascoltati a scuola per quel che sanno del mondo. E, come avevo fatto da ragazzo quando sono entrato per la prima volta in una classe, riprendo a segnare le cose su di un taccuino. Forse è un taccuino di bordo. Molto meno di un diario. Perché raccoglie racconti frammentati e solo segmenti di pensieri.

Mi fermo coi ragazzi come capita. Ascolto e parlo meno di prima. Piuttosto annuisco, uso la mimica del viso, mi fingo distratto e disinteressato. Guardo di lato quasi; ma poi rientro nel conversare. E’ perché sono quasi sospinto a dismettere i panni dell’educatore. Ho rinunciato alla funzione educativa? Tradisco il mandato implicito che il mio ruolo mi assegna? O ho bisogno di osservare – di sospendere decisioni e azione – per poter capire le cose in questo più largo e vario paesaggio? So che spesso rinuncio al rimbrotto ai ragazzi; e anche all’appello accorato che lo accompagna: ad andare a scuola, a non fare guai, a pensare al futuro. Nel doposcuola torno a fare il maestro invece. Subito. Con una brusca virata a ritroso. Ma nell’osservazione di strada mi sento altro. E, dunque, ascolto loro più che me stesso e quel che dovrei essere. Imparo così a sentire dentro di me il tono delle loro valutazioni, le strategie inventate per tenermi lontano, il come incedono i loro dubbi, il suono delle attese, i discorsi accennati e spesso tronchi che prendono in uso per i diversi umori.

Osservo i ragazzi che vanno in giro. Hanno una vita propria, vasta, variegata. Che si muove lungo le vie. Né a scuola né a casa. Una vita di città, che è libera e condizionata ad un tempo. Molti discorsi, confusamente, paiono segnati dagli eventi che capitano loro nella città per come essa davvero è. Ma altre volte per nulla. Come se vi fosse una resilienza indomita, imbattibile, sovrana. Oppure succedono le cose e si infittiscono le reazioni. Accadono risse e litigi. Questo o quello viene cacciato o abbandona il lavoro che aveva trovato o viene preso altrove. Ci sono i fidanzamenti e gli sfidanzamenti. Hanno luogo reati, carcerazioni. Si manifestano inimicizie, nuove amicalità, alleanze. Nascono mode e giochi. E tutto si accompagna a un fittissimo parlato, ai gesti, al teatro di strada. E all’uso – per spiegare ogni passaggio, volta dopo volta - degli stereotipi che spiegano e non spiegano affatto, ripresi dalle formule trasmesse attraverso le generazioni.

Ma questo ribollire di eventi e parole senza fine cos’è? E’ l’insieme di tante strane tappe della crescita? Serve comunque a plasmare i pensieri? C’è creazione di convinzioni? Cammino e mi domando. La scuola e le sue rassicuranti certezze sono cose lontane mentre cammino per le vie. I ragazzini e i loro genitori, tuttavia, conservano nella mente un posto per la scuola. Ne riconoscono la necessità, il valore. E io, in fondo, sono riconosciuto perché sono della scuola. Sono una propaggine di quella necessità che cammina in giro. Strano. La scuola non riesce ad agganciare tanti di questi ragazzi. Li sfiora. Li coinvolge fino all’adolescenza ma poi, così com’è, non li riesce a trattenere. Li perde. Non è solo qui che avviene questa perdita. Un ragazzino italiano su cinque non termina la scuola superiore e non ottiene una qualifica professionale. A Sud e anche a Nord. I quartieri cambiano da una città all’altra. La sostanza resta. Leggo i dati. Ne faccio una collezione certosina, maniacale. Sono almeno settecentomila l’anno. Sono sempre i più poveri a cadere fuori.

Eppure la scuola – in questi luoghi dell’abbandono scolastico di massa - è rispettata. E io sono contento di questo rispetto. Perché ogni giorno continuo a pensare che se non si sanno le cose, anche quelle lontane dalla propria esperienza o forse soprattutto quelle, se non si sanno mettere insieme nei loro nessi, almeno essenziali e, dunque, se non si conoscono gli alfabeti indispensabili a farlo, ebbene non si ha autonomia in questo mondo, non si ha vera libertà, non si ha cittadinanza né futuro. Così continuo a credere nella scuola. Anzi: in una scuola che chiede, che pretende di più. Soprattutto per chi parte con meno. Ma davvero ci vuole un’altra scuola per fare questo: una diversa opportunità di apprendimento, capace di trovare i ganci per ogni ragazzino. Ed è anche per capire che tipo di ganci ci vogliono che ora io sto fuori da scuola e vado avanti e indietro in questo luogo di osservazione di ragazzini che, nella vita, “partono con meno”. Imparo a capire che questo mio andare avanti e indietro è una situazione, in qualche modo, privilegiata. Perché mi mostra e mi dice le mille cose che entrano nella vita di questi nostri giovanissimi concittadini. Sto dinanzi a molte meraviglie. Scruto un intreccio formidabile di vite singole e di vita collettiva. E’ un movimento irregolare, caotico. E’ imprendibile secondo uno schema o un paradigma dato a monte di quel che avviene. Come mettere in relazione questa vita con gli alfabeti irrinunciabili della scuola?