Da una recente indagine di YouTrend/Quorum/Zanetto su come si informano i nostri parlamentari, emerge il ruolo ormai centrale assunto dai social media nel veicolare notizie. Facebook, WhatsApp e Twitter in molti casi vengono ormai considerati – e non solo dai nostri parlamentari – alla pari dei più tradizionali sistemi di informazione. Facebook – con oltre 2 miliardi di persone connesse in tutto il mondo, 30 milioni solo nel nostro Paese – è la piattaforma che veicola maggiormente news, informazioni e contenuti che spesso vengono considerati validi e credibili proprio perché sfuggiti al controllo dell’informazione tradizionale.

È l’incarnazione del mito del web e dell’informazione libera, non subordinata alle logiche del potere e della politica, che nasce insieme all’accesso alla rete di un numero sempre maggiore di persone e con lo sviluppo di un nuovo modo di fare informazione, dai siti di news fino a Wikipedia e al “citizen journalism”: uno smartphone, una connessione, costi contenuti e un approccio non reverenziale al potere tradizionale. Un ideale di democrazia che ha affascinato innovatori, filosofi e sognatori di tutto il mondo – e che ha fatto di Julian Assange l’eroe controverso di una generazione – basato su tre cardini: libertà di accesso, di parola e parità di autorevolezza. Come aveva osservato Umberto Eco lamentandosene, sul web siamo tutti uguali, abbiamo tutti lo stesso diritto di commentare, di dire la nostra, di veicolare informazioni, indipendentemente da competenze, meriti e riconoscimenti.

A distanza di qualche anno, però, è apparso chiaro che la pratica ha smentito l’ideale e quello che era il valore aggiunto della rete alla democrazia e alla libertà di parola e pensiero ha finito per diventarne il punto debole. Lo scandalo Russiagate, le fake news, la moltiplicazione di piattaforme di informazione che inondano il web con miliardi di notizie che sfuggono a qualsiasi criterio di verifica, ci stanno obbligando a una profonda riflessione sulla presunta libertà e democrazia del web. Un problema serio che ha portato Facebook a giustificare pubblicamente la propria policy, e uno dei fondatori di Twitter, Ewan Williams, ad ammettere in un’intervista: “Pensavamo di regalare a tutti la libertà di rivolgersi al mondo intero invece il meccanismo che è alla base di internet si è rotto... Il problema è che internet premia chi esprime posizioni estreme”. Più sono violente o in grado di suscitare commenti, più aumenta l’engagement di quelle notizie quindi il tempo di permanenza e il coinvolgimento delle persone, più salgono i rendimenti dei siti di news, Facebook e Twitter.

Lo stesso Zuckeberg, fondatore di Facebook, ha spiegato recentemente come nonostante tutti gli scandali che l’hanno coinvolto, dall’acquisto di spazi pubblicitari da parte di fomentatori di odio a sfondo razziale, omofobico e religioso fino alle ormai accertate interferenze russe nell’elezione di Donald Trump, la sua azienda non censurerà notizie palesemente false in nome della libertà di pensiero e della democrazia. Secondo uno schema, un algoritmo cioè, che penalizza nelle visualizzazioni i post e gli autori ripetutamente segnalati. Avete mai provato a far cancellare da Facebook una notizia palesemente falsa che magari ha scatenato commenti violenti, aggressivi o anche solo il più tradizionale e nostrano “venduti, privilegiati, andate in malora”? Un’impresa inutile. Le notizie false, solitamente costruite ad arte mescolando elementi di verità con il fake, corredate da immagini a forte impatto emotivo e da testi che parlano direttamente alla pancia e al malcontento dei lettori, sono inamovibili. È dunque questa l’ingloriosa fine del mito del web democratico e libero?

Esmeralda Rizzi è responsabile social media Cgil nazionale