Il processo Eternit era prescritto già prima del rinvio a giudizio dell’imprenditore svizzero Schmidheiny. È questa la motivazione, resa nota oggi, del verdetto di prescrizione emesso dalla prima sezione penale della Cassazione il 19 novembre scorso riguardo le vittime dell’amianto del processo Eternit. Secondo la suprema corte, secondo quanto riporta l’Ansa, “a far data dall’agosto 1993”, anno in cui la lavorazione dell’asbesto era stata “definitivamente inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti”, era ormai noto e provato l’effetto nocivo delle polveri di amianto. E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (2012), spiegano i giudici, sono passati ben oltre i 15 anni previsti per “la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005”. Tra gli effetti della prescrizione del reato, che è quindi intervenuta prima della sentenza di primo grado, vi è anche la caduta di “tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni”.

Importante è il rilievo fatto dalla Cassazione alla “lentezza” della politica. Quando, nel 1976, l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny “aveva assunto la responsabilità della gestione del rischio di amianto per le aziende Eternit Italia, gli effetti ‘disastrosi’ della lavorazione (almeno quella non adeguatamente controllata) dell’asbesto erano scientificamente noti”, e il problema delle patologie tumorali venne “posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni ottanta”. Ma il nostro paese, sottolinea la suprema corte, non adottò per tempo i provvedimenti dovuti, e la Corte di giustizia europea, dopo una procedura di infrazione promossa nel 1990, dichiarò l’Italia inadempiente all’obbligo di dotarsi di una normativa anti-amianto. In sostanza, si legge nella sentenza, ci sono stati “una lentezza della politica a problemi di tale fatta” e un “ritardo nell’informazione scientifica degli organi pubblici”, anch’esso dovuto alla “lentezza della politica”.

Tornando al merito della motivazione, per la Cassazione “la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri d’amianto prodotte dagli stabilimenti” gestiti da Stephan Schmidheiny (Casale Monserrato e Cavagnolo in Piemonte, Napoli-Bagnoli in Campania, Rubiera in Emilia Romagna), quindi non oltre il giugno 1986, quando venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo. Con il fallimento, precisano gli alti magistrati, “venne meno ogni potere gestorio riferibile all’imputato e al gruppo svizzero”, mentre gli impianti produttivi cessarono l’attività “che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante”.

La Cassazione, inoltre, spiega anche che il processo doveva essere per lesioni e non per altro reato. “Il Tribunale – si legge nelle motivazioni – ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato. La Corte di Appello di Torino ha inopinatamente aggiunto all'evento costitutivo del disastro eventi rispetto a esso estranei e ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio”.

“La sentenza ha seguito una logica giuridica che andava bene 80 anni fa”. Questo il commento di Bruno Pesce, portavoce dell’Afeva (l’associazione che riunisce i parenti delle vittime dell’amianto di Casale Monferrato. “I giudici non hanno tenuto conto del fatto che il disastro è ancora in essere negli effetti e nelle cause. Questa sentenza è un atto di giustizia anacronistica” ha aggiunto. In conclusione, Pesce si augura che “lo Stato si costituisca parte civile nel prossimo processo, visto che spende milioni per la bonifica dei siti. Per ora, infatti, ce la dobbiamo prendere con lo Stato e non con chi ha commesso il reato”.