Tra il 2008 e il 2014 la Lombardia ha perso il 10 per cento del tessuto industriale. Se si guarda a tutti i settori produttivi nel loro complesso, si raggiungono punte del 20 per cento. Cresce la disoccupazione, insieme alle ore di cassa integrazione. I segnali di ripresa stentano a manifestarsi, ma anche quando la crisi dovesse terminare, la Cgil ritiene che una parte importante di professionalità e conoscenze sarà ormai andata persa. Da cosa partire, per tentare una ripresa?

“Da scelte di indirizzo politico, e da una rinnovata progettualità imprenditoriale” interviene Massimo Balzarini, segretario regionale della Cgil Lombardia, che continua: “Occorre un piano industriale, che sia supportato da risorse ben indirizzate e spese in maniera corretta. Abbiamo bisogno di percorsi formativi mirati, di utilizzare al meglio l’apporto che può provenire dai giovani. L’esodo dei nostri laureati è un fenomeno drammatico, eppure inevitabile, viste le condizioni cui devono sottostare in Italia. Bisogna dar loro una prospettiva di crescita professionale e la possibilità di esprimersi, così come è necessario ascoltare il contributo proveniente dal sindacato e dai lavoratori, invece di marginalizzarlo, come tenta di fare il governo”.

Si avverte dunque l’urgenza di salvaguardare spazi di democrazia, e di mettere a frutto nuove idee. Ma per la regione ritenuta la locomotiva d’Italia, sarà molto difficile recuperare. La recessione economica non ha fatto che svelare fragilità pregresse, mettendo in luce una mancanza di innovazione di cui il territorio paga oggi lo scotto. Attraverso la crisi, si sono diffuse una serie di comportamenti imprenditoriali spregiudicati, che minano i diritti acquisiti e fanno male all’economia. Riportiamo tre casi esemplari, che narrano il declino dell’economia lombarda, iniziando con una storica azienda metalmeccanica.

SOLO DESOLAZIONE
“Se entri alla Franco Tosi sembra di stare all’interno di una fabbrica post sovietica” esordisce Diego Colombo, delegato della Fiom Cgil di Legnano, esprimendo così la desolazione della storica azienda metalmeccanica, tra i simboli dell’ingegno italiano. Fino a poco tempo fa, la Franco Tosi realizzava turbine a vapore e idrauliche di ottima fattura, ma da tre anni la produzione è completamente cessata. Negli enormi locali ormai deserti, i muri sono scostrati, e i macchinari in disuso. Dei 6mila dipendenti al lavoro negli anni ottanta ne sono rimasti 350, di cui 180 impiegati, e il resto operai. È già il quinto anno di cassa integrazione. L’unica speranza è di riuscire a trovare un compratore dallo spirito innovativo e in possesso di grande liquidità entro il 30 settembre, quando scadrà il termine per la presentazione delle offerte d’acquisto.

Per la ditta, fondata in Lombardia nel 1881, i problemi sono iniziati sul finire degli anni novanta, con l’acquisizione da parte di Ansaldo e il susseguirsi di una serie di scelte produttive sbagliate. Errori che hanno segnato il destino della Franco Tosi nel passaggio alla Casti Group, e successivamente, nel 2009, all’indiana Gammon Group. “In questa ultima fase l’idea era di produrre in Italia per vendere in India. Siamo stati subito assaliti dai dubbi. Come potevamo competere con un mercato controllato da marchi potenti, specializzati nella realizzazione di macchine di grossa taglia? Il nostro target sono infatti macchinari che vanno da 160 a 200 megawatt, tarati sulle esigenze del cliente. Ora ci troviamo a un punto di non ritorno, nonostante tutti gli indicatori evidenzino il nostro potenziale competitivo” precisa Colombo.

Ci vorrebbero investimenti, lungimiranza, il coraggio di cedere finalmente il passo alle idee nuove. Per la Cgil, ciò di cui si avverte la drammatica mancanza è una politica industriale seria, che testimoni la volontà istituzionale di offrire un futuro al paese. A volte si tratta d’incapacità di ascolto. Da tempo, il sindacato propone piani alternativi, che rendano la Franco Tosi più appetibile. Si potrebbe cominciare dall’energia pulita. Ma i progetti si arrugginiscono insieme ai macchinari fermi e sui volti delusi di chi vive, ormai, di cassa integrazione. Eppure, essere assunti alla Tosi era un vanto. Gli operai trasformavano pezzi di ferro grezzo in congegni scintillanti. Godevano di servizi all’avanguardia, avevano la mutua interna. Il loro orgoglio era quello di un territorio florido, che esprimeva la propria energia attraverso il lavoro. “Andavo al lavoro in bicicletta, passando accanto a fabbriche che impiegavano migliaia di persone. Ovunque erano case in costruzione, cantieri. Ora vedo solo edifici abbandonati. Non interessiamo più nemmeno agli speculatori edilizi” conclude ironico Colombo.

IL PADRONE CHE GETTA LA SPUGNA

Edifici mai conclusi, scheletri di cemento: la Lombardia ne è piena, come il resto d’Italia. L’edilizia è sempre stata considerata un settore trainante per l’intera economia, ma questa sua capacità si è come sbriciolata. In Lombardia, a partire dal 2008, il comprato ha registrato un calo del 55 per cento. Simile a una valanga, questo crollo ha travolto tutta una serie di realtà economiche. La crisi le ha colte impreparate, come testimonia il caso del Gruppo Vela, una ditta specializzata nella produzione di laterizi, la cui sede più rappresentativa è a Corte Franca, in provincia di Brescia.

Fino al 2007, la ditta, tra i leader italiani del settore, arrivava a sviluppare 80 milioni di fatturato. A distanza di qualche anno, la situazione si è completamente ribaltata. Vela s.r.l., che si occupava di attività di prefabbricazione, è fallita. La Vela spa, proprietaria dei terreni e delle cave, è in fase di liquidazione, attraverso il ricorso al concordato preventivo. I lavoratori in cassa integrazione sono in tutto duecentocinquanta. La contrazione del mercato non ha fatto che accelerare un prevedibile declino. La mancanza d’innovazione ha infatti segnato negativamente il destino dell’azienda. Con la direttiva n. 31 del 2010 sulla prestazione energetica dell’edilizia, l’Europa dava una serie di indicazioni sui criteri da seguire per la costruzione di edifici moderni e sostenibili, offrendo un orizzonte alle imprese del comparto, e ossigeno all’iniziativa.

“Nonostante l’esistenza di studi e ricerche, noi siamo ancora fermi a trent’anni fa. La tecnologia che utilizziamo è superata, e questo pregiudica pesantemente la nostra capacità competitiva. La crisi non è fatta solo di edifici invenduti, ma anche di quelli invendibili in ragione della loro obsolescenza” riflette Ivan Comotti, segretario della Fillea Cgil regionale, pensando al fallimento del Gruppo Vela.

Con il perseverare della recessione, anche le richieste delle rappresentanze sindacali si fanno più incalzanti. “Abbiamo sempre insistito affinché l’azienda presentasse un piano industriale credibile, al passo con i tempi, ma le risposte sono state inadeguate, fino a trasformarsi in una rinuncia estrema” continua Comotti. Lo scorso 13 gennaio, durante una riunione con i sindacati convocata presso il ministero per lo Sviluppo economico, il proprietario del Gruppo Vela ha deciso di ritirarsi dal mercato, abbandonando l’attività. “È stato terrificante” ricorda il sindacalista, ancora stupefatto per un simile atteggiamento. Ma i lavoratori non ci stanno ad arrendersi, e con loro l’intera comunità. Sindacato, università e istituzioni locali hanno unito le forze, con l’obiettivo di riqualificare il sito di Corte Franca. La questione è diventata materia di analisi e progettazione per gli studenti di architettura dell’Università di Brescia, ed è proprio dai contributi dei giovani che si intende partire.

Lo scorso 19 settembre, a Corte Franca, si è tenuto un dibattito pubblico per discutere del futuro dell’area. Hanno partecipato rappresentati politici e sindacali, docenti, professionisti, studenti. C'erano i lavoratori con le loro famiglie. Il territorio li racchiude tutti, e ad ognuno deve la propria sopravvivenza. “Vogliamo una soluzione, e la vogliamo qui” è il messaggio dei cittadini. Il senso di appartenenza ha un ruolo primario nella vicenda Vela. La consapevolezza di condividere un destino comune scrolla di dosso la rassegnazione, colma il vuoto facendo avanzare il futuro. Ma è difficile, ed oggi lo è ancora di più.

I PROFITTI NON BASTANO MAI

Spesso, la sorte di un’azienda viene decisa da molto lontano. Ci sono imprenditori che guardano agli azionisti, anziché pensare alla buona qualità del prodotto. Al legame umano si sostituisce il meccanismo del denaro, poco controllabile e immediato. Nel 2013 Coca Cola ha realizzato in Italia settantadue milioni di utili: una cifra importante, sebbene inferiore rispetto ai profitti raggiunti in passato. Tanto è bastato per scegliere di darci un taglio, decidendo di comprimere ulteriormente il costo del lavoro. La parola d’ordine è delocalizzare. Gli uffici amministrativi del grande marchio si trovano in Lombardia, tra Milano e Buccinasco, e impiegano seicentoventi persone. Questa estate, l’azienda ha dichiarato duecentoquarantanove esuberi. “Era il 15 luglio, di mattina, e avevamo appena firmato il rinnovo del contratto integrativo aziendale. L’esito era stato positivo, ci sentivamo soddisfatti. Nel pomeriggio ci arriva la comunicazione di mobilità per gli impiegati del reparto commerciale, e la chiusura della sede di Campogalliano, in provincia di Modena. Coca Cola ha avviato una riorganizzazione interna di cui si ostina a non voler svelare le caratteristiche. Ormai, siamo allo scontro duro” dichiara Roberto D’Arcangelo, della Flai Cgil di Milano.

L’azienda investe in pubblicità, assume giovani, li licenzia per assumerne altri a condizioni peggiori. Soprattutto, sta spostando interi reparti in Bulgaria. Milano non è che una pedina, all’interno di uno scenario che va ben oltre i confini nazionali. “I problemi sono cominciati circa sette anni fa, quando siamo passati dal controllo degli americani a quello dei greci. Ovunque osserviamo uguali modalità, la stessa mania di terziarizzare, trasferendo i servizi dove i salari sono più bassi. Il problema va affrontato a livello europeo, non c’è dubbio” interviene Mariateresa Tinelli, delegata della Flai Cgil di Milano.

Da quando Coca Cola ha spostato alcuni reparti a Sofia, la qualità del lavoro ne ha fortemente risentito. Non solo perché il personale è diminuito e la mole di impegni è aumentata. “Avere a che fare con i colleghi bulgari non è cosa semplice. Abbiamo metodi di lavoro differenti. Spesso non ci si comprende, è tutto più faticoso e complicato” continua Tinelli. Quando ha iniziato, trent’anni fa, le nostre aziende pagavano una quota alla Coca Cola Company per poter produrre in Italia. Il legame con il territorio era saldo. Poi le piccole realtà imprenditoriali sono state spazzate vie, e al loro posto sono nati grandi accorpamenti dipendenti dagli Stati Uniti. Le cose sono andate peggiorando poco alla volta. A gettare un’ombra non sono solo le delocalizzazioni, ma anche la prospettiva di una concessione delle attività di vendita ai grossisti. A questo punto, nulla vieterebbe di acquistare la bevanda all’estero, per smerciarla in Italia. I dirigenti che operano nel nostro Paese declinano ogni responsabilità, parlano di strategie decise altrove. Tinelli ha la voce stanca: “Come possono conoscere a fondo la nostra realtà? Sono stranieri, rimangono un anno o due e poi vanno via. A noi, non resta che di ricominciare sempre tutto da capo”.