Nell’attuale crisi della democrazia rappresentativa è rassicurante verificare – grazie al libro di Francesca Re David (“Tempi (retro)moderni. Il lavoro nella fabbrica-rete”, Jaka Book 2018) – la permanente vitalità del sindacato, quale unica grande organizzazione di massa in cui i lavoratori si riconoscono. Questa vitalità consente di fronteggiare il peggioramento delle generali condizioni di vita, determinato dalla crisi economica dell’inizio del secolo, aggravata dalla legislazione più recente, che ha imposto un incremento della disuguaglianza del potere negoziale tra le parti nel rapporto di lavoro.

La segretaria generale della Fiom rileva che – in virtù dell’egemonia del pensiero neoliberale, autopromosso a legge e giurisprudenza – il diritto del lavoro è stato surclassato dal diritto dell’impresa. Il lavoro è trasformato in strumento di produzione, “sforando sugli orari, allargando e intensificando la precarietà, mettendo tutto al servizio, appunto, del massimo utilizzo flessibile delle persone, da parte dell’impresa”. La precarietà implica insicurezza, oggettiva e soggettiva. “Insicurezza che, muovendo dalle condizioni di lavoro – osservava Luciano Gallino in “Il lavoro non è una merce” (Laterza 2009) –, diventa insicurezza delle condizioni di vita, perché il lavoro, e con esso il reddito, è revocabile a discrezione del soggetto – l’impresa, il datore di lavoro – che lo ha concesso”.

La disuguaglianza nasce e si modula quindi in correlazione al diverso margine di libertà di autodeterminazione, attribuito alle parti dai reali rapporti di forza economica e blindato ufficialmente dal legislatore. Il fatto è che l’attuale normativa incide negativamente sull’equilibrio tra le classi sociali, sui diritti fondamentali e, quindi, sull’effettività della democrazia dell’intera comunità. Di qui la funzione primaria del sindacato, che realizza il desiderio del lavoratore di combattere lo sfruttamento, di tutelare e ampliare i propri diritti fondamentali, acquisiti in maniera intangibile con il confronto anche duro in fabbrica e nella società e non per concessione della controparte.

Il conflitto sociale democraticamente agito e quindi non violento diventa un elemento base della democrazia per raggiungere le finalità di uguaglianza, di benessere, di giustizia. “Questo vale naturalmente nella contrattazione, ma vale ancora di più in generale quando parlo degli interessi complessivi che sono anche gli interessi dei lavoratori come per esempio la sanità, la scuola, le pensioni e quindi in questo caso nei confronti dei governi. Il conflitto non è morto, anche se molti aspirano a una società armonizzata, olistica in senso politico o tecnologico, docile e senza conflitti, ma quindi anche senza idee”.

Va rilevata la piena legittimità di questo modo di intendere la democrazia. È pienamente conforme al nostro ordinamento giuridico un sindacato che, come soggetto politico, esce dalla fabbrica e agisce nella società. Questo ruolo è legittimato dalla normativa costituzionale (principalmente dagli articoli 39 e 40, ma anche dagli articoli 2, 3 comma 2, 18) e dalle leggi ordinarie emanate nell’arco di tempo compreso tra gli anni sessanta e gli anni settanta.

È possibile trarre dal tuttora vigente quadro normativo “un riconoscimento di una positività sociale del conflitto e, più specificamente, del fatto che la libera esplicazione della lotta sindacale da parte dei lavoratori è uno degli strumenti con i quali costoro possono rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono loro l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese” (Gino Giugni). Il richiamo al pensiero riformista consente di riportare all’attenzione dei cittadini e dei lavoratori non solo i principi della Costituzione – sicuramente difformi all’egemone diritto dell’impresa –, ma principalmente la giurisprudenza che negli anni settanta trovò l’humus della propria affermazione nei conflitti sociali e la propria legittimazione nella Costituzione.

Il riconoscimento dell’ineffettività del principio di uguaglianza e il conseguente impegno, preso dalla Repubblica con l’articolo 3, di realizzare pari garanzie dei diritti fondamentali e pari partecipazione, spinsero in quegli anni gran parte delle pubbliche istituzioni a sentire l’obbligo di gestire il proprio potere  in modo da soddisfare tale impegno. La magistratura nel campo del lavoro, sotto la spinta di una classe operaia capace di mettere in discussione i tradizionali rapporti di forza dentro e fuori la fabbrica, giunse alla giuridicizzazione del conflitto di classe, mediante la pronuncia di sentenze a favore della parte politicamente debole,  ma giuridicamente forte; in breve, i pretori del lavoro  portarono  in fabbrica la legge civile e penale.

Ma torniamo ai giorni nostri e alla realistica descrizione dell’autoritarismo nel lavoro, dell’alienazione di chi è usato e logorato con l’intensificazione dello sfruttamento e con l’aumento dei tempi del non lavoro. “E quando cresce la disoccupazione e quando cresce la frammentazione del lavoro e quando cresce il ricatto sul lavoro è più difficile porre il tema dei diritti – e molti rinunciano ai diritti pur di aver un lavoro e anche questa è una forma pesantissima di ricatto e insieme di comando sul lavoro”.

Naturalmente, rientra tra i compiti del sindacato e della sua forza di autotutela la soluzione della problematica dell’orario indistinto tra tempi di vita e tempi di lavoro, della riorganizzazione delle imprese per l’innovazione tecnologica, del paradosso della diminuzione degli ammortizzatori e del contestuale aumento dei licenziamenti. Ma c’è ancora un giudice a Taranto, a Pomigliano d’Arco, a Melfi? Come già accennato, negli anni settanta si concretizzò, nel diritto civile, una giurisprudenza che si articolava in decisioni che realizzavano la prevalenza degli interessi funzionali all’emancipazione delle classi subalterne, dei diritti sindacali sugli interessi della proprietà privata o della produzione. Questa giurisprudenza è oggi meno risonante, sia a causa della sua essenza sovrastrutturale, sia a causa delle nuove norme che rendono costoso e di ridotta efficacia il ricorso al giudice civile.

La Costituzione comunque resiste e amplia la sua incidenza nella disciplina giuslavorista: nella Repubblica italiana fondata sul lavoro, chi profitta dello stato di necessità della parte vulnerabile e della sua impossibilità di determinarsi liberamente è punito severamente dall’articolo 600 del codice penale (riduzione o mantenimento in servitù). Si deve prendere consapevolezza che la condizione di servitù non ha solo rilievo penale, non ha più i connotati di anomala trasgressione, marginalmente limitata a periodi stagionali e a lavoratori stranieri, ma ha iniziato a essere una “risorsa”, riconosciuta dalle forze di governo agli imprenditori come contropartita per la tanto agognata ripresa economica.

Nonostante l’impegno delle avanguardie sindacali, ci avviciniamo sempre di più a un mercato del lavoro popolato, in tutti i settori, da prestatori d’opera a forte limitazione di libertà di autodeterminazione, non più separati dalla disuguaglianza tra autoctoni e immigrati, ma accomunati dalla nuova uguaglianza nel lavoro servile. È evidente che la tutela giuridica da sola non costituisce una valida difesa per la libertà e la dignità dei lavoratori dipendenti e di tutti gli esseri umani che vivono nel nostro territorio. Protagonista centrale rimane il sindacato, chiamato a tutelare le condizioni di vita di lavoratrici e lavoratori, mantenendo l’aspirazione di interpretare e rafforzare un principio di giustizia sociale che vada oltre il luogo di lavoro.

In attesa di un capovolgimento dei rapporti di forza economica, politica e culturale, non si può comunque trascurare la parte del mondo giudiziario che continua ad affermare la supremazia delle norme della Carta Costituzionale e a negare la servitù del diritto penale e civile alle esigenze del sistema produttivo. Una maggiore intesa culturale tra sindacato e magistratura indipendente può dar maggiore forza alla resistenza della legalità e della giustizia. Il forte e pungolante libro della Re David può essere un produttivo terreno di incontro e di confronto.

Antonio Bevere, già consigliere della Corte di Cassazione, tra i fondatori di Magistratura democratica