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Nelle ultime settimane abbiamo assistito a molteplici prese di posizione sugli effetti che l’esito del referendum costituzionale avrebbe sull’economia e soprattutto sulla crescita economica. In particolare, governo, istituzioni internazionali, agenzie di rating e anche qualche istituto di ricerca hanno affermato che l’eventuale successo del no avrà effetti negativi sulla crescita economica.
Queste affermazioni non sembrano poggiare su solidi argomenti teorici o empirici. Molte di esse fanno riferimento a quello che accadrà nel breve periodo, con previsione di caduta del governo se vincesse il no e di conseguente reazione negativa dei mercati finanziari, prima, e della già malferma economia reale, poi. Si tratta, dunque, di effetti derivanti da comportamenti – non imposti dagli eventi – di chi ha responsabilità politiche e, anche, finanziarie, come le agenzie di rating.
Effetti e comportamenti, dunque, che esulano da una seria valutazione delle conseguenze economiche della riforma. D’altro canto, genera qualche imbarazzo la disinvoltura con la quale si argomenta che presunti effetti di breve periodo – peraltro relativi a una sfera ben precisa, e non l’unica di rilievo – dovrebbero orientare una scelta costituzionale. Ed è così soprattutto se si considera la pressoché unanime attribuzione ai politici di un gravissimo difetto: lo short-termism, appunto.
Gli argomenti economici più appropriati per valutare una riforma costituzionale sono, a mio parere, quelli che si estendono al lungo termine. Il dibattito, su questi effetti di lungo termine è stato molto fiacco e si è nutrito di argomenti non all’altezza della questione. Si è detto, a proposito della riforma del Senato in particolare, che essa avrebbe effetti positivi sulla crescita, perché porterebbe a due favorevoli modifiche istituzionali: la maggiore stabilità dei governi e la più rapida approvazione delle leggi.
Non discuterò se la riforma sia davvero in grado di assicurare, in modo sistematico e non soltanto episodico, questi risultati, ma credo sia lecito nutrire più di un dubbio. Né entrerò nel merito di alcuni argomenti chiaramente inadeguati allo scopo, come quelli secondo cui le riforme come tali sono favorevoli alla crescita. Mi limiterò a osservare che alcuni studi – peraltro contestati – provano che riforme di natura ben diversa da quelle costituzionali possono avere effetti economici. Quelle costituzionali non entrano in queste analisi.
Piuttosto riporterò i risultati di una mia breve indagine, da non esperto, sulla letteratura scientifica internazionale in tema di diffusione del bicameralismo e di rapporti tra quest’ultimo e il funzionamento dell’economia. Quello che ho trovato mi ha sorpreso non poco e mi ha lasciato con diverse incertezze, ma con almeno una certezza di cui dirò. La prima sorpresa – dovuta alla mia ignoranza che, però, mi sembra moltissimi condividano in Italia – l’ho avuta leggendo che “un’ampia maggioranza della popolazione mondiale vive in regime bicamerali”. E i paesi che, nel mondo, hanno sistemi bicamerali – naturalmente con caratteristiche diverse – erano 45 nei primi anni settanta e ora sono circa 80. Ad adottare quei sistemi sono, peraltro, molti dei Paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo si può leggere non su un blog, ma sul sito del Senato francese. Scommetterei che molti italiani pensano che il nostro è quasi l’unico Paese bicamerale al mondo.
La seconda e forse maggiore sorpresa mi ha colto quando sono andato in cerca di studi teorici ed empirici sulle conseguenze economiche del bicameralismo. Un lavoro molto documentato e molto utile è quello di Stephen Voigt (“Positive constitutional economics II – a survey of recent developments”, Public Choice, 2011). Dalla letteratura che egli passa in rassegna emerge un conclusione generale, enunciata nella parte finale dell’articolo: raramente le regole costituzionali hanno effetti economici rilevanti. Questa è, per quello che mi riguarda, l’unica certezza. Tuttavia, è interessante riportare i risultati di alcuni studi sugli effetti del bicameralismo citati da Voigt.
Inizio citando la conclusione cui giungono Miller e Hammond: il bicameralismo può accrescere la stabilità, intesa come minore probabilità di cambio di maggioranze. E questa suona davvero come una sorpresa. Ma è stato anche sostenuto che in Svezia e Danimarca il passaggio dal bicameralismo a una singola Camera ha reso le decisioni politiche meno prevedibili e quindi ha accresciuto l’instabilità. Secondo Levmore, il bicameralismo è preferibile alla maggioranza qualificata come metodo per limitare il potere di chi detta l’agenda. Forse un’eco di questa funzione del bicameralismo la sentiamo in questi giorni, dopo l’elezione di Trump a presidente americano.
Ancora Levmore giunge alla conclusione che il bicameralismo potrebbe contrastare meglio la corruzione. Congleton, dal canto suo, trova che nei sistemi bicamerali le decisioni sono, almeno nel lungo periodo, più affini alle preferenze del votante mediano e quindi, potremmo dire, più “democratiche”. Quanto agli effetti sui deficit pubblici, le opinioni sono molto divergenti. Insomma, il bicameralismo può (può!) fare tutto questo. Non vi è certezza che lo faccia, ma non vi è certezza nemmeno del suo contrario. E i fattori da cui dipende se riuscirà a farlo – tra i quali certamente rientrano le qualità e i comportamenti della classe politica – dovrebbero forse occupare lo spazio che oggi viene dedicato a ripetere le solite formule, evidentemente non troppo magiche.
Ancora qualche riflessione aggiuntiva sulla stabilità politica nell’accezione di durata dei governi, com’è d’uso nel dibattito italiano. Questo punto va sottolineato, perché nella letteratura internazionale la stabilità o l’instabilità politica si misurano con variabili molto diverse: tumulti, assassinii, dimostrazione anti-governative, scioperi generali e simili. Dunque, i risultati, peraltro controversi, a cui essa giunge sui rapporti tra stabilità politica e crescita economica non possono essere riferiti alla durata dei governi.
Che i governi italiani da quando esiste la Repubblica abbiano avuto una durata ridotta è certamente vero. Se consideriamo il periodo tra il dopoguerra e il 1989, su 11 paesi avanzati l’Italia è quello che ha la durata media dei governi più breve: 251 giorni, contro la media di 637 e il picco, dell’Irlanda, di 935 giorni. Tuttavia, se allarghiamo il periodo di osservazione e lo dividiamo in due – i primi 30 anni e i successivi 40 – vediamo che la durata media dei governi italiani tende a crescere. Più precisamente tra il 1947 e il 1977 la durata media è stata di circa 343 giorni, mentre negli ultimi 30 anni è stata di 562 (+ 64%). Isolando, poi, gli ultimi 10 anni si arriva alla rispettabile cifra di 764. Se non si andasse troppo per il sottile si potrebbe dire che man mano che è aumentata la durata dei governi si è infiacchita la crescita media dell’economia. Di certo non sembra essere accaduto il contrario. Ma sappiamo che le variabili in gioco sono molte e non possiamo dimenticarlo né ora, né quando il segno apparente delle correlazioni è diverso.
C’è anche un altro aspetto della stabilità politica che a me pare rilevante: la durata in carica degli stessi politici come primi ministri anche se con governi diversi. Un rapido calcolo porta al seguente esito: i 10 primi ministri più longevi dei 70 anni della Repubblica hanno ricoperto quella carica per ben 51 anni. Forse i governi durano poco, ma i loro “capi” no e questo sembra rilevante per un giudizio complessivo sulla stabilità politica. Naturalmente, una stabilità ancora maggiore potrebbe essere comunque desiderabile. Ma – come si è visto – l’abbandono del bicameralismo non assicura questo esito e la non cristallina chiarezza del testo della riforma accresce i dubbi al riguardo. Non solo. Anche la velocità di approvazione delle leggi potrebbe non manifestarsi o non dare gli impulsi positivi prospettati se non verranno rimosse le lentezze connesse all’attività del governo nella promulgazione dei cosiddetti decreti attuativi.
Passando brevemente agli effetti della prevista stabilità, anche qui emerge molta ambiguità. Abbiamo ben pochi elementi per valutare l’effetto della maggiore stabilità sulla crescita economica a parità di altre condizioni, dunque isolando dagli altri questo specifico effetto. Sappiamo invece per certo quali sono i fattori che frenano la crescita economica italiana, dall’inefficienza della pubblica amministrazione alla mancanza di innovazioni, alla diffusione della corruzione, e non è facile immaginare come l’eventuale stabilità dei governi possa di per sé fare fronte a questi problemi.
Vi è un aspetto della riforma che potrebbe, in realtà, contribuire a rendere peggiori e non migliori le performance del sistema economico. Mi riferisco al modo in cui verranno selezionati i senatori e al doppio incarico che essi dovranno ricoprire. Viene difficile pensare che consiglieri regionali e sindaci a doppio servizio possano fare meglio di senatori dedicati e, anche, scelti in un modo forse (forse!) più favorevole alla selezione delle capacità. Fa anche pensare che nel momento in cui si decide che occorre ricentralizzare competenze che furono delle Regioni, anche per l’incapacità di queste ultime, si decida di traghettare parte di coloro che determinano le politiche regionali nel Senato della Repubblica. Il dubbio è, dunque, che la qualità delle decisioni politiche potrà peggiorare con effetti negativi sulla crescita economica. Peraltro, soprattutto se l’orizzonte temporale non è breve, la crescita economica non dovrebbe essere un criterio di valutazione prioritario. Ce lo ricorda anche l’Onu con i suoi obiettivi del Millennio.
In conclusione, appare davvero difficile – quand’anche lo si accettasse come criterio di valutazione di una riforma costituzionale – invocare gli effetti sull’economia per motivare un voto favorevole alla riforma. Questi effetti sono troppo incerti per poter essere elevati a criterio di giudizio di una riforma costituzionale. Dunque, ci si può sentire del tutto liberi di decidere in base ad altre argomentazioni. L’economia, almeno per una volta, può scendere dal proscenio. In realtà, potrebbe essere saggio seguire un suggerimento formulato da Jon Elster in uno dei suoi ultimi lavori (“Excessive ambitions II”, in Capitalism and Society, 2009): quando manca la certezza sugli effetti che potrà produrre, la scelta costituzionale dovrebbe essere orientata non tanto a conseguire l’obiettivo considerato migliore, ma piuttosto a ridurre il rischio dei risultati peggiori. Ognuno potrà decidere quali siano i risultati peggiori e come possano essere meglio evitati. Forse quello che sta accadendo negli Stati Uniti può essere di aiuto.
Maurizio Franzini è professore ordinario di Politica economica alla Sapienza, Università di Roma