In queste ore tutta l’organizzazione della Cgil è impegnata nella preparazione della manifestazione romana del 17 giugno prossimo. Attivi, assemblee, direttivi, volantinaggi e uso dei social in vista di un appuntamento straordinario. La manifestazione del 17 è straordinaria nel senso letterale del termine. Non è costruita su una piattaforma ordinaria, non è stata “preparata” come lo sarebbe una classica manifestazione sindacale, con tempi medio-lunghi, le riunioni delle strutture e la campagna, il più possibile diffusa, di assemblee nei luoghi di lavoro e fra i pensionati.

La mobilitazione è stata, infatti, decisa in pochi giorni, potremmo dire in poche ore, per rispondere a quello che da subito abbiamo definito come uno schiaffo alla democrazia. La manifestazione dovrà perciò essere un momento di reazione collettiva a quanto avvenuto in Parlamento, un precedente pericoloso per le regole democratiche che sono, innanzitutto, la prima garanzia della convivenza comune.

Per questo, nonostante la lettura che prevale nei mass media, il 17 non è “solo” una manifestazione contro i nuovi voucher. E non è nemmeno la battaglia di un’organizzazione “ferita”, incapace di costruire mediazioni e accettare le necessità indotte dai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nel sistema produttivo, se non addirittura la scelta di uscire dalle logiche sindacali per buttarsi nell’arena del confronto politico, se non partitico.

Chi dice questo, mente sapendo di mentire. Oppure sottovaluta, e non è meno grave, quando accaduto. I fatti sono facilmente riassumibili. All’inizio del 2016 la Cgil ha avviato una campagna di assemblee coinvolgendo i propri iscritti e poi, sulla base del mandato ricevuto, una raccolta firme su un progetto di legge di iniziativa popolare, la Carta Universale dei Diritti, e su tre quesiti referendari a sostegno della Carta stessa.

Abbiamo scelto la strada della partecipazione dal basso, del coinvolgimento diretto dei cittadini a cui abbiamo chiesto di “mettere una firma”, ma, soprattutto, di essere protagonisti di un percorso che ridesse loro voce sulla questione fondante della nostra democrazia repubblicana, il lavoro.

Lavoratori e cittadini hanno partecipato con convinzione, dimostrando che la necessità di dar voce alle reali condizioni del lavoro è forte. Abbiamo usato strumenti previsti dal nostro ordinamento democratico, quali la legge di iniziativa popolare e il referendum che poco o mai, come nel caso dei referendum, avevamo utilizzato come organizzazione sindacale nella nostra storia.

Si può pensare, legittimamente, che quella scelta sia stata sbagliata, ma certamente è stata una scelta che ha rispettato e si è concretizzata utilizzando strumenti e regole previsti dal nostro ordinamento. E questo utilizzo oggi non può né essere derubricato a mera tattica sindacale né ad appendice poco significativa delle questioni di merito. Sarebbe invece interessante interrogarsi sulle ragioni che hanno indotto un grande sindacato confederale a utilizzare pratiche e strumenti di partecipazione e di coinvolgimento del mondo del lavoro e dei pensionati che certamente hanno accompagnato in questi ultimi mesi le nostre tradizionali pratiche rivendicative, in gran parte al fianco di Cisl e Uil.

E allora dovremmo discutere del cambiamento avvenuto nella relazione, a dire il vero mai semplice, fra la rappresentanza politica e la rappresentanza sociale. Dovremmo parlare della disintermediazione praticata e spinta fino a considerare un valore avere assunto determinati provvedimenti, sul lavoro, sull’economia e sulla scuola senza alcuna relazione con il sindacato. O, ancora: del sindacato individuato come un problema, delle mobilitazioni che non hanno avuto risposta, della convinzione diffusa fra la nostra gente che alcuni provvedimenti fossero contro il lavoro e non a suo favore.

Certo dovremmo discutere anche della sempre maggiore difficoltà del sindacato a rifiutare logiche corporative, avendo la necessità di rappresentare all’interno di una visione unitaria di società un lavoro sempre più frammentato e condizioni sempre più differenti.  Ecco, di questo, varrebbe la pena davvero parlare. Ma qui l’obiettivo è mettere in fila i fatti. A settembre sono state consegnate le firme per i referendum, molte di più (oltre 1,1 milione per quesito) di quelle richieste per poter adire a una consultazione e le firme sulla Carta (oltre 1,5 milioni ). A inizio gennaio la Corte Costituzionale ha ammesso due dei tre quesiti referendari, voucher e appalti e, qualche settimana dopo, il Governo ha definito la data di svolgimento delle votazioni, allora previste per il 28 maggio.

A metà marzo il Governo ha deciso di emanare un decreto che aboliva lo strumento dei voucher e ripristinava la piena responsabilità solidale nel sistema degli appalti, rispondendo in modo integrale ai quesiti referendari. A fine aprile una legge ha definitivamente abolito l’istituto dei voucher e ripristinato la piena responsabilità solidale negli appalti e la Corte Costituzionale ha annullato l’appuntamento referendario che chiaramente, a fronte di quel tipo di intervento legislativo, non aveva nessuna ragione di mantenersi. Mi pare giusto ricordare, fra le righe, che fra le motivazioni addotte nel provvedimento c’era la volontà di favorire il lavoro stabile e contrastare le pratiche elusive delle norme.

Dopo poco più di un mese, all’interno della manovra di correzione dei conti pubblici, attraverso un emendamento, si è introdotta una nuova disciplina sul lavoro occasionale, drammaticamente simile alla vecchia. Il provvedimento è stato votato con la fiducia alla Camera dei deputati e la stessa sorte avrà, presumibilmente, al Senato. Questi sono i fatti. Si è abrogata una norma evidentemente con l’unico obiettivo di non far svolgere un referendum e poi subito dopo se ne è generata una nuova pressoché uguale. Abbiamo tante, fondate, ragioni di merito per contrastare la nuova disciplina sul lavoro occasionale: la definizione di due nuove forme contrattuali senza alcun confronto con le parti sociali; la drammatica analogia con la normativa sui voucher; l’impianto aperto e passibile fra qualche mese di nuove modificazioni; l’utilizzo permesso ancora una volta anche alle imprese e senza alcun riferimento a cosa si consideri davvero occasionale, cosa che renderà lo strumento per sostituire, a minor costo, forme contrattuali esistenti e con più tutele per i lavoratori; la possibilità, ancora una volta, che divenga uno strumento a copertura del lavoro nero più che a suo contrasto; l’idea di lavoro “povero e a basse tutele” che c’è dietro questo provvedimento, e così via. Ma davvero queste valutazioni forse devono andare in secondo piano.

Perché, certamente, sul lavoro occasionale la si può pensare diversamente da noi e altrettanto certamente con le opinioni differenti è necessario confrontarsi. Tuttavia il cuore di questa vicenda è che si sono lese le regole democratiche e lo si è fatto nel modo peggiore, offendendo i valori delle istituzioni pubbliche, mentendo e prendendo in giro i cittadini, negando loro il diritto di esprimersi come previsto dalla Costituzione.

Per qualcuno può non essere tanto grave e, diciamolo, nel nostro Paese non è nemmeno così raro; tuttavia affrontare questo nodo sostanzia la possibilità o meno di recuperare una relazione positiva tra etica pubblica, responsabilità politica e partecipazione dei cittadini. Sarebbe stato più onesto fare questa battaglia in trasparenza; sarebbe stato più onesto correggere la normativa sui voucher dopo un confronto con il sindacato e difendere le ragioni di quella scelta anche di fronte all’appuntamento referendario.

Da oltre un anno ci si poteva confrontare sulle proposte per superare i voucher e rispondere comunque al lavoro occasionale. Ma così non è stato e allora oggi non sono accettabili le motivazioni che da più parti vengono portate a sostegno della scelta: “c’era un vuoto normativo da colmare”, “lo chiedevano tutti”, “il lavoro occasionale esiste e va normato”, “non sono i voucher di prima”.

Si è preferito ingannare i cittadini, commettendo in primo luogo l’errore di far perdere di credibilità alle istituzioni. Davvero possiamo tutti, a prescindere dalle opinioni di merito, accettare che sia proprio la politica la prima a smentire le regole che si è data? Davvero possiamo pensare che i percorsi democratici siano giusti e corretti solo se piegati al volere di qualcuno? O che un precedente di questo tipo non danneggi ancora di più il già fragile rapporto fra i cittadini ed i decisori ? In queste domande si trovano le ragioni profonde della manifestazione del 17 giugno. Una manifestazione che chiede rispetto per le regole democratiche, per le istituzioni e le norme condivise della convivenza comune.

Una manifestazione che dovrebbero avere a cuore, e rispettare, anche i tanti che sul merito non sono mai stati d’accordo con noi ma che considerano sbagliato quanto avvenuto e che soprattutto vogliono difendere le forme di  garanzie di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica contenuta nella Carta Costituzionale. E il referendum è una di queste forme. Una manifestazione che quindi avrà due questioni al centro, la difesa della democrazia e il lavoro. I voucher per noi non sono mai stata “la questione” per eccellenza, ma una questione che simbolicamente assumeva il valore del  contrasto alla condizione di precarizzazione che ha caratterizzato il mercato del lavoro degli ultimi anni.

Anni in cui in una parte consistente del sistema economico e sociale ha prevalso la logica dell’importante è lavorare, della compressione o della riduzione delle tutele come strumento competitivo, dell’eccesso di tutela visto come freno agli investimenti e alla necessaria flessibilità richiesta da un mondo sempre più veloce, complesso e articolato. Per la Cgil la qualità del lavoro, la sua considerazione nell’orientare le scelte economiche e sociali sono anch’esse un metro di misura della condizione di democrazia di un Paese. Per questo in questi anni uno degli slogan che hanno accompagnato le nostre proposte è stato “Tutta un’altra Italia“.

Certo anche su questo la si può pensare diversamente da noi. Ma non si può invece onestamente sminuire o derubricare la manifestazione del 17, come sentiamo da troppe parti in queste ore, a una incomprensibile rigidità della Cgil sulla necessità di normare il lavoro occasionale. Il 17 saremo in piazza per un obiettivo più grande, il rispetto della democrazia, il valore del lavoro.

(Tania Scacchetti è segretario confederale Cgil nazionale)