Marco ha quattordici anni, occhi a mandorla e uno spiccato accento romano. I suoi genitori gestiscono un ristorante cinese ma lui di cinese, a parte l’aspetto, non ha proprio nulla. Pechino, dove è nato suo padre, è un punto del mappamondo appoggiato in una mensola della sua cameretta, utile al ripasso della lezione di geografia del giorno dopo. Marco è uno dei tanti. Apolidi, invisibili, indesiderati: chiamateli come volete ma non pronunciate la parola “cittadini” perché per la legge italiana cittadini non sono. Eppure, nella scorsa legislatura, il semaforo sembrava finalmente illuminarsi di verde. Dopo l’approvazione alla Camera mancava solo l’ultimo passaggio al Senato. Andato puntualmente a vuoto.

E così siamo a ricominciare l’ennesimo gioco dell’oca, sulla pelle di questi ragazzi, discriminati dalla legge sulla cittadinanza e, più recentemente, dalle nuove disposizioni dei decreti sicurezza, che li rendono e li mantengono stranieri in questo loro, nostro Paese. Condannati a dipendere dai permessi di soggiorno dei genitori, dai tempi di attesa sempre più lunghi e da discriminazioni normative e accanimenti burocratici vissuti direttamente al raggiungimento dei diciotto anni e che finiscono per lasciare in sospeso le loro vite per molto tempo, trasformandoli di fatto in fantasmi per legge.

Non parliamo di numeri marginali. Parliamo di un milione e 300 mila figli di immigrati che vivono nel nostro Paese. Tre su quattro sono nati qui. Più della metà ha meno di otto anni, sono dei bambini. In 842 mila vanno a scuola. A loro si rivolgono le tre proposte di legge in discussione, che non prevedono uno ius soli puro, bensì quello che è stato ribattezzato ius culturae: la possibilità per i nati in Italia da genitori stranieri di richiedere la cittadinanza (a determinate condizioni: frequentare un ciclo scolastico quinquennale o avere un genitore "soggiornante di lungo periodo") senza dover attendere la maggiore età.

Ed è quest’ultima fattispecie che potrebbe entrare nel nostro ordinamento. Condizionale d’obbligo perché le prime timide aperture della maggioranza sono state già depotenziate dalla maggioranza stessa. I motivi? Puramente elettoralistici. La vulgata dice che una riforma della cittadinanza presterebbe il fianco alle barbare crociate di Salvini & company, pronti a ricavarne percentuali a doppie cifre alle prossime elezioni. Ma un governo, degno di questo nome, dovrebbe volare più in alto. Dovrebbe avere un’idea di Paese e il coraggio di una direzione. Ora o mai più.