Da Molecole

Nell’America degli anni settanta dello scorso secolo, un manipolo di economisti e sociologi – che di lì a poco avrebbero ispirato la crociata conservatrice di Ronald Reagan – si mettono a speculare su quanto la poverta’ sia il frutto paradossale del welfare e, in particolare, dell’assistenza pubblica in caso di disoccupazione e assenza di reddito. Se lo stato e’ disponibile a mantenere a vita chi non ha un lavoro, questa la vulgata, e’ inevitabile che la societa’ si ammali di irresponsabilita’ e di deperimento dello spirito di iniziativa. Un argomento ormai arcinoto e che ha ispirato decenni di “riforme” e di guerre contro i poveri: dagli Usa di Clinton alla Germania di Schroeder passando per il Regno Unito di Blair. Eppure nessuno, se non il solito sparuto nugolo di (veri) liberali, si chiede quanto ad assuefare sia la ricchezza, soprattutto quella ereditata.

Quella italiana e’ una societa’ in cui ereditare ricchezza e’ divenuta una preoccupazione (molto) maggiore del produrla. E gli scandali di questi mesi gettano una luce profetica sulla mutazione antropologica degli italiani: dismesso l’abito della civilta’ rurale, ci siamo goduti qualche decennio di civilta’ industriale per poi piombare in questa buffa – ma davvero deprimente – economia e societa’ della rendita, in cui si combinano in modo spericolato habitus pre-moderni ed aspirazioni di post-modernita’. La cricca ne e’ un esempio davvero perfetto. Le ormai famose sorelle Papa – le originarie proprietarie dell’appartamento al Colosseo poi venduto al sempre astuto Claudio Scajola – conducono una vita da disoccupate di lusso. Questa e’ la formula che ha usato il Corriere della Sera (3 Maggio) per descriverne le scelte di vita. Morta mamma’ hanno potuto incassare il milione e seicentomila euro dei proventi della vendita dell’immobile ereditato, assicurandosi un vitalizio tale da permettere loro di dedicarsi a tempo pieno all’arredamento dei rispettivi appartamenti di lusso nel centro della capitale.

Ma piu’ complessivamente, la nuova ondata corruttiva vede sempre coinvolti dei figli, dei figli di ovviamente, e dei padri solerti organizzatori della loro dipendenza e passivita’. Lo stesso Balducci che ottiene per il figlio un posto al Salaria Village ed anche una particina in un film per mezzo delle mediazioni della cricca, i figli del Generale Pittorru cui viene trovato un posto di lavoro ed acquistata una casa sempre secondo il metodo Anemone, eppoi i figli dell’ex ministro Lunardi, quella di Scajola anche lei al centro dell’affare…….Tutti protagonisti invisibili e dorati dell’Italia delle rendite senza lavoro, delle fortune senza sforzo ed anche – in questo caso – della ricchezza senza tasse. Ma e’ una delle conversazioni intercettare a colpire in particolare l’attenzione. Ne trascriviamo un estratto, a parlare e’ Angelo Balducci: “Dico che quello (Filippo, suo figlio) oggi ha fatto trent’ anni. Io per carità, non è che mi voglio nemmeno permettere di confrontarmi con voi. Ma io dico che tu, a trent’ anni, eri già a capo di un piccolo impero… Questo non c’ ha manco un posto da usciere tanto per essere chiari. Permetterai che uno è un po’ incazzato (….) A chi vado a raccontare che non sono in grado di collocare un figlio? Perché tra l’ altro con tutto quello che mi è successo, che io vengo chiamato a orologeria, cioè quando serve, io proprio non lo accetto e credo di dire una cosa sacrosanta. Io che ho la coscienza da padre, dico: ‘Che cosa ho fatto per mio figlio? Un cazzo’. Mentre per tutti gli altri… Ho fatto l’ inimmaginabile….Allora, quello che mi parla della figlia di quello… quell’ altro… Quello sta lì, quell’ altro sta là… quell’ altro.. e Monorchio il figlio così. Mi permetterai che mi girano i coglioni” (Repubblica, 12 Febbraio). Non c’e’ molto da aggiungere. Ovviamente lo statuto di figlio di un membro o di un beneficiario della cricca non e’ minimamente rappresentativo delle condizioni medie, tutt’altro. Ma da’ il senso di una direzione, della cultura diffusa in parte consistente della “classe dirigente” e dei suoi grandi elettori e che da tempo pare essere divenuta maggioritaria.

E non e’ un caso che al centro delle transazioni della cricca ci siano sempre case ed immobili. Il peso della rendita immobiliare nell’economia italiana ha un ruolo fondamentale nella riproduzione del familismo immorale e dell’assuefazione da ricchezza ereditata. A livello di massa, la proprieta’ immobiliare diffusa – oltre l’80% degli italiani possiede la casa in cui vive – costituisce un veicolo fondamentale della dipendenza delle giovani generazioni da quelle precedenti. L’aspettativa di una piu’ o meno consistente eredita’ immobiliare orienta i comportamenti sociali e condiziona l’attitudine al rischio di parte – quella piu’ privilegiata – delle giovani generazioni, privatizzandone ulteriormente la cultura politica. Se la propria sicurezza ed il proprio benessere futuri dipendono dall’investimento immobiliare dalla famiglia di origine, ci si occupera’ ben poco del destino della societa’ in cui si vive: “comunque vada, ereditero’ un certo capitale che tutelera’ i miei livelli di vita”, sembrano dirsi milioni di giovani italiani. L’eredita’ costituisce quindi una formidabile – ed insopportabilmente iniqua – assicurazione individuale nei confronti di una societa’ che offre poche occasioni per costruire la propria autonomia, ed anche una strepitosa opportunita’ perche’ nulla cambi dal punto di vista politico e sociale.

Marginali nel mondo reale, i giovani dipendenti non devono interessarsi al fisco, al mercato del lavoro, ai problemi sociali: la famiglia occupa ancora uno spazio consistente nella definizione del loro rapporto con il mondo, sono i genitori a fare da mediatori con il mondo reale e sono loro a capire chi gli conviene votare per migliorare la propria posizione economica. Il loro rapporto con il mondo si esprime nei termini di una sorta di eterno e simulato apprendistato: non si lavora veramente, ma si ha un posto magari precario tanto per farsi un’idea di come funzionera’ il mondo quando si diventera’ grandi. Ed ovviamente, si e’ ben lungi dall’intendere il lavoro come dimensione nella quale puo’ esservi spazio per l’azione collettiva: trattandosi di una simulazione, pur dolorosa, non si immagina minimamente che si possa rivendicare qualcosa. Il lavoro e’ una concessione, non un diritto, nonostante quello che recita la nostra Costituzione, ed e’ anche questo tipo di familismo a rendere socialmente tollerabili disoccupazione e precarieta’. Il rapporto con la politica si risolve cosi’ o in un atto identitario – non raramente, anche’esso di eredita’ familiare – oppure non trova nessun ruolo nella vita reale del soggetto. La privatizzazione della sfera pubblica ed il suo deperimento si nutrono anche della dipendenza inter-generazionale di massa, il cui riflesso e’ la riluttanza di molti italiani nell’investire in un’idea collettiva di emancipazione – una scuola ed un’universita’ di qualita’, un mercato del lavoro funzionante, un welfare efficace – ed il loro entusiasmo per la detassazione di rendite, immobili, eredita’: da queste ultime, si dicono, dipende il benessere dei loro figli, non dalle prime.

Quindi organizzare i bamboccioni, come ironicamente e’ stato proposto su Molecole, e’ davvero un bel dilemma. Ma e’ anche una buona occasione per dire una cosa chiara sulla societa’ italiana: che l’unica cosa che puo’ davvero trasformarla e’ il lavoro. Che dobbiamo fare di tutto perche’ il lavoro ed il contributo individuale al benessere collettivo si trasformino in una vera e propria ossessione per la nostra generazione, o quantomeno della sua parte parte piu’ attiva. Ed il lavoro serve soprattutto a chi oggi non ha eredita’ da giocarsi. La proposta di Andrea Garnero queste pagine e’ da questo punto di vista davvero ottima, soprattutto sul piano simbolico: per un’Italia con piu’ eguaglianza e meno assuefazione da ricchezza ereditata.