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Hanno sfilato, protestato, rivendicato. Diecimila lavoratrici e lavoratori in marcia per un contratto. Nessuna violenza, nessuna minaccia, solo una tangenziale attraversata a piedi, simbolicamente, per farsi vedere da un Paese che fa finta di non sentirli. A quanto pare è già abbastanza per diventare fuorilegge.
Chi lavora, paga le tasse e manda avanti le fabbriche è diventato sospetto. Ma non si può trattare da delinquenti chi sciopera per un contratto. I veri criminali sono altri: quelli che evadono, inquinano, licenziano per speculare. E invece lo Stato sembra sapere dove guardare quando deve colpire, e dove voltarsi quando deve proteggere.
A Bologna non è stato infranto un vetro. Solo l’ipocrisia. Perché se l’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è fondata sul lavoro, allora bisogna cominciare a crederci davvero. E difendere chi sciopera. Non schedarlo. Non processarlo. Non imbavagliarlo con decreti sicurezza buoni per gli ultrà da stadio.
Il governo non ha riaperto i tavoli, ha aperto i fascicoli. Non ha cercato un accordo, ha cercato dei colpevoli. E i colpevoli, si sa, non sono mai quelli che prendono i soldi e scappano. Sono quelli che restano e protestano. I metalmeccanici non sono un problema di ordine pubblico. Il problema è chi li tratta come tali.
De Palma, segretario della Fiom, l’ha detto chiaramente: “Se ci saranno denunce, mi ritengo denunciato anche io”. Perché se oggi scioperare diventa un reato, allora la Costituzione è diventata carta da pacchi. E chi ha giurato di difenderla – come il sottosegretario Durigon – dovrebbe ricordarsi che il diritto di sciopero non è un favore, è un principio inviolabile.
Ma forse è proprio questo il punto. Che oggi, alzare la testa e anche solo la voce, è già considerato troppo. E chi lo fa, finisce sulla lista nera. Nessun tribunale dovrebbe servire per capire da che parte stare. Basta leggere l’articolo 1. E poi guardare chi, mentre il resto d’Italia restava ferma, ieri ha camminato.