In Italia il lavoro non è più un’assicurazione sicura contro il rischio povertà. Si può essere poveri anche lavorando, come ricorda spesso nei suoi interventi il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. Ma per contrastare il fenomeno e tentare di risolvere il problema non basta affidarsi a una legge che introduca un salario minimo uguale per tutti. È questa la convinzione che sembra prendere corpo da alcuni studi di esperti ai quali il governo Draghi si è affidato per tentare di delineare per la prima volta un quadro organico. In particolare è il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che sta raccogliendo diverse analisi dettagliate che dovrebbero portare a breve alla definizione di una serie di proposte. Alcune anticipazioni le abbiamo lette sui quotidiani, come quella di Paolo Baroni su La Stampa del 27 dicembre.

Come si definisce il lavoro povero? Chi sono i working poor?
Partiamo da qualche dato. In Italia un quarto dei lavoratori totali ha una retribuzione individuale bassa, cioè, inferiore al 60% della mediana. Almeno un lavoratore su dieci (ma ci sono stime ancora più pessimistiche) si trova in situazione di povertà, cioè vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana (11.500 euro in base ai valori del 2018). Si tratta di un fenomeno italiano, ma anche europeo pur se nel nostro Paese i livelli di rischio di scivolare in situazioni d'indigenza sembrano più alti che altrove. “Stando agli ultimi dati elaborati da Eurostat nel 2019 – scrive Baroni su La Stampa - l'11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%. Dalle varie analisi realizzate nell’ultimo periodo anche alla luce degli effetti devastanti della pandemia, risulta che tra i settori più esposti ci sono gli alberghi e i ristoranti, col 64,5% di addetti a rischio bassa retribuzione annuale, seguiti da altri servizi (41,6%), dal settore delle costruzioni (31,7%) e dall’agricoltura (30%). 

Una storia che si ripete
E non si tratta neppure di un fenomeno nuovissimo. Già nel 2012 la Rivista delle Politiche Sociali pubblicava un saggio di Vincenzo Carrieri sull’argomento. “Oltre al problema della scarsa quantità di lavoro – scriveva l’autore - che rimane la prima causa di povertà, la scarsa qualità del lavoro stesso sembra costituire, dunque, una nuova allarmante preoccupazione di politica sociale. Per scarsa qualità si intendono diversi attributi negativi della posizione lavorativa, tra cui basse retribuzioni, scarse garanzie contributive, irregolarità delle carriere, ecc. Queste condizioni determinano un rischio di povertà individuale significativo per i lavoratori e aumentano il rischio di povertà dell’intero nucleo familiare”. 

Sempre Carrieri ricordava che il fenomeno dei working poor è esploso dapprima negli Usa e ora sta interessando molti paesi europei, pur con significative eccezioni come la Svezia, dove i tassi di povertà al lavoro sono insignificanti e i Paesi Bassi, dove il tasso di working poor è in costante decrescita. “L’insorgere del fenomeno è imputabile a diverse cause, alcune legate all’evoluzione del mercato del lavoro, altre a cambiamenti istituzionali. Tra le prime rientrano i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati (il cosiddetto Skill-Biased Technological Change), la delocalizzazione del lavoro nei paesi in via di sviluppo che può avere comportato una riduzione dei salari dei lavoratori meno qualificati in Europa, i fenomeni migratori che possono aver ridotto il salario dei lavoratori nativi poco qualificati. Tra i cambiamenti istituzionali rientrano certamente le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata che possono aver avuto ripercussioni negative sui salari in genere, ma soprattutto sulla coda sinistra della distribuzione dei salari”. 

E anche oggi un dato molto importante che emerge da quasi tutti gli studi sul fenomeno riguarda le cause della povertà lavorativa. Non si tratta solo di salari bassi. “Nel dibattito pubblico – scrive Baroni citando la relazione finale della commissione - la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti mentre questa è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati in un anno), la composizione familiare e l'azione redistributiva dello Stato”. Una strategia di lotta alla povertà lavorativa richiede, quindi, “una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito, e assicurare un sistema redistributivo efficace”.

Ma quanti sono?
Per avvicinarsi a una prima quantificazione dell’area dei lavoratori poveri, applicando uno redi riferimenti Istat (sotto la soglia dei 9 euro l’ora di retribuzione), il ricercatore del Censis, Andrea Toma, parla di 2,9 milioni di lavoratori; 35% nella classe 15-29 anni; 47,4% nella classe 30-49 anni; 79% operai, 53,3% uomini. Decisivo è il calcolo delle giornate lavorate durante l’anno. Tra gli operai ci sono 8,6 milioni persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno con una retribuzione media annua di 14.762 euro. Ci sono poi 629 mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Nella sfera del lavoro povero, spiega ancora Andrea Toma, si possono inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari che devono essere sommati al lavoro irregolare (circa 3 milioni di persone), una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico (921mila).

Questa situazione pone l’Italia ai primi posti in Europa per i livelli di working poor. Gli occupati a rischio povertà 2010-2019 nella Ue si sono attestati al 9,2%; in Germania all'8,0% ; in Francia al 7,4%. In Italia siamo all’11,8%. “Da noi – commenta Andrea Toma – le cause di questo andamento sono state molteplici: una lunga stagnazione, il blocco dei contratti, la ridotta dimensione d’impresa, i contratti pirata, la concorrenza al ribasso dei costi, il ricorso al part-time (involontario), i lavori discontinui”

Le dinamiche salariali, anche se non sono la causa unica del lavoro povero, hanno comunque un peso rilevante nella formazione di un’area di lavoro povero. “Nel 2020 la massa salariale è scesa in Eurozona del 2,4%, in Italia ha avuto un tracollo del 7,2% - ricorda Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio che ha prodotto vari studi sull’argomento -. Anche depurando il dato italiano dall'ampio sostegno derivato dalla Cassa integrazione (17,3 miliardi in più sul 2019) l'insieme dei salari scende del 3,9%, molto di più del livello europeo. In Italia ci sono 3 milioni di precari, 2,7 milioni di part-time involontari (di cui una parte anche precari), 2,3 milioni di disoccupati ufficiali (4 milioni se includiamo gli inattivi). "Uno spaccato davvero troppo alto, ingiusto e insostenibile di lavoro povero e discontinuo che riguarda il nostro Paese", dice ancora Fammoni.

E non è un caso che le prime tre delle otto fasce in cui la Fondazione ha suddiviso le diverse posizioni contrattuali sono tutte caratterizzate da discontinuità lavorativa. Qui ci sono 5 milioni di persone con un salario medio effettivo non superiore a 10 mila euro lordi annui. La prima è sotto i 6 mila e la seconda attorno ai 9 mila per circa 3,3 milioni di persone. Se nessuno potesse scendere sotto i 10 mila euro annui, la media salariale italiana salirebbe di 3.800 euro all'anno. E se questo riguarda il passato, preoccupa anche il futuro prossimo venturo. Fammoni spiega infatti che il fenomeno dei lavoratori poveri potrebbe perfino peggiorare se non ci si appresta a gestire la grande trasformazione: la riorganizzazione generale dell’industria e della produzione alla luce della transizione energetica e della digitalizzazione-automazione spinta.

Ora fare sul serio
“Finalmente si torna a parlare di un fenomeno che noi denunciamo da anni”, commenta la segretaria confederale della Cgil, Tania Scacchetti. “È molto importante che il ministero del Lavoro abbia voluto avviare un lavoro di studio preliminare per chiarire lo stato reale delle cose. Ma saranno ovviamente decisivi gli indirizzi che si sceglieranno. Il problema non si risolve – per la Cgil – limitandosi a parlare esclusivamente di salario minimo. Come si è visto, infatti, le cause della povertà da lavoro sono molteplici e non si possono affrontare pensando solo agli individui separati dal contesto, a partire da quello famigliare in cui sono inseriti. Si tratta di affrontare il problema dei bassi salari, ma anche quello delle condizioni del nostro mercato del lavoro in cui purtroppo sono cresciuti precarietà, discontinuità lavorativa e crescita esponenziale dei part-time involontari che abbassano la soglia di reddito annuale".

“Esiste quindi una questione generale di qualità del mercato del lavoro – aggiunge Scacchetti – oltre che una questione salariale che deve essere affrontata anche attraverso la lotta alla contrattazione pirata e con interventi legislativi sulla rappresentanza. La battaglia contro il lavoro povero e il rilancio di un lavoro di qualità a tempo indeterminato che dia certezze per il futuro ai lavoratori è uno dei temi fondamentali per una vera riqualificazione generale del lavoro, come abbiamo anche scritto nella nostra Carta dei diritti universali”. Ed è ovviamente la condizione minima per far ripartire l’economia su basi nuove ed ecosostenibili.