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Il 22 agosto del 2011 moriva, "suicidata" con una bottiglia di acido muriatico, Maria Concetta Cacciola, 31 anni, figlia del boss di Rosarno, una delle tante - troppe - donne uccise dalla mafia. A dispetto di tante vecchie leggende sui codici d’onore, l’associazione DaSud ne ha contate nel 2012 (dal 1896) più di 150, uccise - o indotte al suicidio - per faide, vendette trasversali, paura che parlassero, o solo perché passavano per strada nel luogo e nel momento sbagliato.
“Abbiamo deciso di pubblicare questo dossier perché come accade nella società, anche le organizzazioni criminali costituiscono un sistema fortemente patriarcale e maschilista in cui la donna è quasi sempre subordinata all’uomo, anche se dagli anni ‘70 ad oggi è in aumento il numero di quelle indagate o imputate per 416 bis - affermava spiegando le ragioni del volume Cinzia Paolillo, curatrice insieme a Irene Cortese e Sara Di Bella della pubblicazione - Ma non solo, abbiamo voluto anche dare un contributo per colmare, attraverso le storie delle vittime, un vuoto di memoria in cui il sacrificio di tante donne è stato cancellato dall’oblio. … Non è affatto vero, come alcuni ancora credono, che in virtù di un presunto codice d’onore, la mafia non uccida le donne. Lo ha fatto almeno per 150 volte fino ad oggi e spesso con modalità brutali perché mentre per far fuori un uomo spesso basta un colpo di pistola, sul corpo di una donna c’è un accanimento particolare”.
Come nel caso di Rossella Casini, una bellissima ragazza fiorentina che riesce a convincere il fidanzato di Palmi a collaborare con la giustizia, uccisa e fatta a pezzi; o come Annunziata Pesce, nipote del boss calabrese Giuseppe, che tradisce il marito con un carabiniere, uccisa il 20 marzo del 1981 dal cugino davanti al fratello più grande, come vuole il codice delle ‘ndrine. Quello di Gelsomina Verde viene ricordato come uno dei più spietati delitti della camorra. Una vicenda raccontata anche da Roberto Saviano in Gomorra. Gelsomina ha solo ventidue anni e fa l’operaia in una fabbrica di pelletteria. La sera del 21 novembre 2004 Mina, così viene chiamata dagli amici, viene attirata in una trappola proprio da un amico, Pietro Esposito. I suoi aguzzini avrebbero dovuto estorcerle delle informazioni. Probabilmente Mina non sa, forse non vuole tradire. Rimane inspiegabile l’efferatezza con la quale i killer si avventano sul suo corpo. Torturata per ore, forse stuprata, sarà uccisa con sei colpi di pistola ed il suo corpo sarà dato alle fiamme. Le donne sono definite intoccabili, eppure spesso è proprio è la ragione per cui vengono prese di mira.
Come Anna Prestigiacomo uccisa il 26 giugno 1959 a quindici anni a Palermo da un bulletto di borgata che non tollera un amore rifiutato. Come Maria e Natalia Stillitano, Concetta Iaria, Maria Immacolata Macrì, Maria Teresa Ferraro uccise per vendetta, per logiche interne alle guerre dei clan. Sono vittime di mafia anche Rita Cacicca, Rosa Fazzari, Nicolina Mazzocchio, Letizia Palumbo e Adriana Vassalla, vittime di quel deragliamento del Freccia del Sud partito da Palermo il 22 luglio del 1970 e probabilmente avvenuto a causa di un attentato stragista organizzato dalla ‘ndrangheta e da pezzi dell’eversione nera.
Si muore anche al posto di qualcun altro. Questo è il caso di Palma Scamardella, trentacinquenne, madre di una bimba di quindici mesi, uccisa il 12 dicembre 1994 al posto dello zio, suo vicino di casa, sulle scale esterne della propria abitazione. Uccisa per sbaglio, come tanti anni prima era accaduto a Marina Spinelli, colpita a morte nell’agguato ad Antonio Guarino, segretario della Camera del lavoro di Burgio, il 17 marzo 1946. La sua unica colpa è stata passare nel luogo sbagliato nel momento sbagliato.
“Il vero disonore - scrive Celeste Costantino nella prefazione di Sdisonorate - risiede in questo elenco di vittime che vi presentiamo, tutte in qualche modo innocenti. Lo sono quelle che hanno avuto la sfortuna di passare per caso da una strada in cui stava avvenendo una sparatoria e quelle che hanno tradito. Lo sono quelle che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro e quelle che hanno denunciato. Alcune di loro - va detto - sono morte per mano di altre donne, e infatti non ci interessa con questo dossier fare l’apologia della figura femminile nelle terre di mafie. Anzi non sfugge a nessuna di noi come negli anni si sia rafforzato il ruolo delle donne all’interno della criminalità organizzata. Il nostro obiettivo in questo caso non è la descrizione di una parte del sistema, ma è per un verso la necessità di restituire dignità a delle donne dimenticate e per l’altro di svelare il falso mito del codice d’onore delle cosche”. Sdisonorate non è soltanto un elenco di storie. Nelle pagine del dossier il rapporto tra donne e mafia è analizzato tra gli altri da Rita Borsellino, Angela Napoli, Francesca Barra, Celeste Costantino, Ombretta Ingrascì, e arricchito da numerose testimonianze dirette.
“Il nostro compito - scriveva Rita Borsellino, una donna che per prima alla mafia ha pagato un prezzo altissimo - è quello di produrre cultura antimafiosa che possa demolire i modelli mafiosi, tocca a quella che si chiama società civile e, soprattutto tocca alle donne della società civile, impegnarsi per combattere questo fenomeno. Non mi sono mai sentita costretta ad assumere un ruolo che non fosse il mio, che non sentissi veramente addosso. Dopo il 19 luglio 1992, certamente la mia vita è cambiata, e ho indossato un’altra veste che ho scoperto vestirmi bene. Sono cambiata io, nel senso che appunto da moglie, madre e farmacista quale ero, mi sono trasformata in una donna diversa, impegnata a portare il messaggio di Paolo, mio fratello, in ogni angolo del Paese perché con le sue parole, con la lezione morale ed etica che ha lasciato, il suo esempio continuasse a vivere, come lui stesso e quello che aveva fatto per questa terra. È così che sono uscita dal mio guscio familiare per stare in mezzo agli altri, incontrare quanta più gente possibile e portare ai giovani soprattutto alle nuove generazioni che neanche hanno vissuto le stragi del ’92 l’insegnamento che Paolo aveva lasciato a me e a tutti noi”. “Credo - concludeva Rita Borsellino - che l’impegno antimafia sia prima di tutto un dovere. Ognuno deve contribuire per sé, nel suo piccolo, ognuno per quello che ha e per quello che è”.
La mafia, ne siamo convinti, si combatte anche - forse soprattutto - ricordando. “Fare memoria - diceva don Luigi Ciotti - è un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta, ma prima ancora verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione”.