Dal marzo 1968 - favorito in modo sostanziale dalle rilevanti conquiste operaie nella contrattazione aziendale in tema di organizzazione del lavoro, ambiente di lavoro e delegati sindacali - riprende il dialogo tra Cgil, Cisl e Uil. Il 14 novembre 1968 le tre confederazioni tornano a scioperare per la prima volta insieme dai tempi delle scissioni.

Il confronto prosegue in modo serrato e tra l’ottobre 1970 e il novembre 1971 si tengono a Firenze tre riunioni che di fatto scandiranno il percorso verso l’unità: Firenze 1 (26-29 ottobre 1970), Firenze 2 (1-2 febbraio 1971) e Firenze 3 (22-24 novembre 1971). Il 3 luglio 1972 viene siglato alla Domus Mariae di Roma il Patto federativo. 

“Cgil, Cisl e Uil - si legge nel Patto - di fronte alle difficoltà insorte in ordine ai modi e ai tempi di conclusione del processo unitario, previsti nella riunione di Firenze dell’autunno scorso, confermando l’obiettivo dell’unità sindacale quale esigenza irrinunciabile per assicurare una più valida e completa difesa degli interessi dei lavoratori e per rafforzare le basi del sistema democratico, convengono sulla necessità di realizzare un patto che salvaguardando, consolidando ed estendendo il patrimonio unitario acquisito, dia permanente certezza all’unità d’azione in funzione dell’unità organica di tutti i lavoratori”.

A tal fine, prosegue il testo del Patto federativo, “decidono di costituire, con carattere di transitorietà e quale mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo, una federazione tra le confederazioni articolata ai vari livelli, con prerogative delegate e organi propri, ferma restando la piena sovranità dì ogni confederazione per le materie non delegate. La federazione è denominata Federazione Cgil, Cisl, Uil (…)”. 

Il sindacato unito e unitario diventa da subito protagonista di una lunga stagione nella quale - tra crescenti e talvolta drammatiche difficoltà - il movimento dei lavoratori in Italia conquista i livelli più elevati del suo processo di emancipazione nel campo delle politiche contrattuali, delle politiche di riforma economica e sociale, di programmazione e di sviluppo.

Le vicende internazionali saranno al centro dell’agenda della Federazione unitaria, con una particolare attenzione alle emergenze e dalle grandi battaglie ideali di libertà e democrazia. In questo solco grande attenzione è suscitata dalla condizione, nella Repubblica Sudafricana, dei cittadini segregati, alle vicende del Medio oriente ed al conflitto israelo - palestinese, con il tragico strascico di morti e la difficoltà a gestire i vari momenti di maggiore o minore intensità di scontro, così come rimarrà sempre vigile lo sguardo verso l’est europeo. In questo spazio di tempo la Federazione unitaria dovrà affrontare la grande sfida, drammatica, contro il terrorismo.

La Federazione unitaria vivrà con la massima fermezza possibile - dalla bomba di Piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa - la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo. “Come sarebbe finita - si chiederà anni dopo Enzo Ceremigna - se non ci fosse stato il Sindacato, quel Sindacato, quella Federazione Unitaria? Se non ci fossero stati dirigenti sindacali, Luciano Lama in testa, capaci di tenere dritta la barra del timone democratico, di persuadere lavoratrici, lavoratori, pensionati che la difesa strenua della convivenza civile era la prima, grande priorità da perseguire?”.

Sono per l’Italia e per il sindacato anni difficili: Moro, Guido Rossa, Ustica, Bologna, Danzica. In questo clima di tensioni sociali si apre - e si chiude - a Torino la vertenza alla Fiat. Il 14 ottobre 1980 lavoratori, quadri e dirigenti Fiat si muovono in corteo per le strade di Torino, dando vita a una vera e propria manifestazione contro il sindacato (la famosa “marcia dei quarantamila”). L’impatto emotivo è enorme e il sindacato accusa il colpo.

Durante i lavori dell’Assemblea nazionale dei quadri e dei delegati (unitaria), tenuta nel marzo 1981, così come nei congressi delle confederazioni celebrati lo stesso anno, i rapporti tra Cgil, Cisl e Uil si fanno sempre più tesi. 

Già dal 1982 comincia a circolare l’ipotesi di un aggiustamento della scala mobile contro l’inflazione. Il 1° giugno gli industriali decidono la disdetta dell’accordo Lama-Agnelli del 1975. Il sindacato risponde con gli scioperi generali del 2 e del 25 giugno. Per alcuni mesi il timore di nuove divisioni sembra essere scongiurato, ma la discussione per la legge finanziaria 1984 mette nuovamente in evidenza crepe e spaccature.

Il 12 febbraio 1984 il governo formalizza la proposta di un ulteriore taglio alla scala mobile. La Cgil si spacca, all’interno e all’esterno. Il 14 febbraio viene firmato un accordo separato, pratica ormai in disuso da circa trent’anni. Per superare la frattura sindacale il governo interviene d’urgenza attraverso lo strumento del decreto legge. Contro il decreto di San Valentino la Cgil si mobilita. Il 24 marzo la maggioranza della confederazione organizza a Roma un’imponente manifestazione cui partecipa circa un milione di persone.

A maggio il decreto viene convertito in legge. Agli oppositori rimane adesso un’unica arma: il referendum. La raccolta firme è promossa dal Pci e da Democrazia proletaria, mentre la Cgil, immersa nella grave crisi dovuta alla spaccatura con i socialisti e al collasso della Federazione unitaria, assume una posizione attendista. Il referendum si terrà nel giugno 1985. Vincerà, con una differenza di circa l’8%, il no. 

Dirà Luciano Lama: “La mia tesi era che si sarebbero dovuti valorizzare questi miglioramenti, e non arrivare allo show down del referendum. Si fece invece il referendum nel quale la domanda, in sostanza, era questa: “Sei d’accordo sul decreto?". Io ricordo le discussioni appassionanti che ci furono su questa questione, all’interno della Cgil e nel mio Partito, e quelle più dolorose furono per me senz’altro quelle all’interno del Partito. La mia tesi era questa: noi potremmo anche votare contro in Parlamento, perché c’era sempre quella tale questione per cui si attribuivano ai lavoratori responsabilità che non avevano, nel processo inflattivo. Ma tirare la corda, soprattutto dopo che avevamo avuto anche un successo parziale, era un errore, per due motivi: il primo - e per me più importante - era che avremmo compromesso forse definitivamente l’unità sindacale e messo in discussione quella della Cgil - cosa mai avvenuta dal ’45 all’85, perché con i socialisti eravamo sempre stati insieme; e il secondo era che il referendum l’avremmo perso. “Come lo perdiamo?”  mi sentivo chiedere. Tutta la discussione si fece su questo, perché anche qui pareva la solita storia: “Non ci rimette nessuno, ci guadagnano tutti, perché dovremmo perdere?” era la domanda ricorrente. “Ma perderemo - rispondevo io - perché la gente ragiona sulle cose, e capisce che se rimane questo meccanismo che appiattisce i salari e gli stipendi, esso si traduce poi in conseguenze negative sul terreno economico generale: e poi ormai tutta la questione era diventata un simbolo.  Ma non ci fu niente da fare e il mio Partito decise che bisognava fare il referendum - allora le cose andavano così - e io dissi: “Va bene, facciamolo; lo perderemo ma facciamolo”.

Si conclude così l’esperienza della Federazione unitaria.

“Cosa resta di quei giorni?” - si chiederà anni dopo Giorgio Benvenuto - “Quel che resta è un ponte che non è stato percorso sino alla fine e che anzi dopo essere stato indebolito da qualche crepa, ha ceduto. Del sogno unitario resta la parte realizzata, seppur per un periodo breve, quella dei metalmeccanici, della prima organizzazione sindacale che si sia si presentata a una riunione internazionale con una sola insegna a qualificare la ditta: non accadeva dai tempi di Bruno Buozzi. Resta non come testimonianza archeologica di un passato felice, di una mitica età dell’oro che non tornerà più, ma come momento di riflessione e anche di azione, come una possibilità concreta e ripetibile, certo con altri mezzi, con altre articolazioni, ovviamente con altri uomini. Vale forse in questo caso quel che molto tempo fa diceva Heinrich Heine: «Una rivoluzione è sempre una calamità, ma calamità ancora più grande è una rivoluzione fallita». Non è lontano dal vero Fabrizio Loreto quando attribuisce il fallimento del processo unitario fondamentalmente a tre cause: la cultura delle classi dirigenti, le culture politiche, le culture presenti nel sindacato. Il livello di responsabilità va, però, stabilito perché non è analogo: c’è chi porta un peso superiore, chi uno inferiore e chi uno estremamente lieve. Proprio i pesi abbiamo provato a definire nel corso di queste pagine. Franco Marini, che evidentemente ha qualche responsabilità in più in quel fallimento, rievocando gli anni Settanta riconosce che lui era contrario all’unità organica. Condizionamenti interni e internazionali, a suo parere, impedivano il raggiungimento del traguardo. Oggi, a tanti anni di distanza, però, Marini ritiene che l’unità non solo sia possibile, ma sia preferibile. In un mondo senza frontiere non ci si può isolare: se la finanza crea delle potenti Internazionali, la stessa internazionalità la deve praticare il sindacato, costruendo alleanze, vivificando il ruolo delle organizzazioni sovranazionali perché oggi è in atto una corsa al ribasso sui diritti (…) Dieci anni dopo l’Autunno, Pierre Carniti parlando dell’eredità di quella fase, diceva: «La gente (…) ha imparato a lottare. In certe categorie un tempo si considerava un fatto degradante entrare in sciopero, come ad esempio i magistrati. Questo è certamente un grande risultato che da solo ci impedirà di tornare agli anni ‘50»  (…) Il problema essenziale, importante per tutta la sinistra è quello di cambiare le cose, e questo io chiamo ‘la sinistra’: non è avere una tessera, è voler cambiare le cose, è il credere che sia possibile cambiarle (…) Quando alcuni anni fa la rivista di Sartre fece una grande inchiesta internazionale per domandare a intellettuali e politici la definizione di quello che sia ‘la sinistra’ una risposta mi persuase: a sinistra è chi crede che sia possibile cambiare il mondo (…) L’unità sindacale forse non avrebbe cambiato il mondo, probabilmente avrebbe faticato a cambiare l’impenitente Italia, ma avrebbe offerto almeno una speranza, quella che oggi sembra a molti mancare”.