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Aveva due figli Petty. Due bambini piccoli che la aspettavano in Nigeria. Lei, ventotto anni, vissuti nel sacrificio, era arrivata in Italia sognando per loro una vita diversa. Per questo si spaccava la schiena nei campi del Metaponto. A raccogliere fragole di giorno, pagata tre euro l’ora. A subire abusi e violenze quando il sole calava sul ghetto. Eris Petty Stone veniva da Lagos ed era finita insieme ad altre centinaia di braccianti nelle baracche de “La Felandina”. Lì avrebbe dovuto esserci un insediamento industriale, invece c’era solo miseria. Come quella della casa di cartone in cui Petty è morta, avvolta dalle fiamme all’alba del 7 agosto di un anno fa.
Solo due giorni prima il Senato aveva dato il via libera al Decreto Sicurezza bis, ennesima stretta voluta dalla Lega allora al governo contro i migranti e il diritto all’accoglienza. E in quelle stesse ore e nei giorni successivi la nave umanitaria Ocean Viking affrontava l’ennesima odissea in mare. Ancora oggi del perché sia scoppiato l’incendio e Petty sia morta non si sa molto. Tanti ipotizzano che non si sia trattato di un semplice incidente ma di una vendetta contro quella ragazza che si era ribellata e voleva andarsene. Petty, forse, aveva deciso di spezzare le catene della violenza che la teneva segregata tra i capannoni.
Dopo la sua morte, la fabbrica dismessa è stata sgomberata eppure poco è cambiato. Lo sfruttamento c’è ancora nei campi del metapontino e fuori: i migranti – braccia da utilizzare a bassissimo costo – vivono abbandonati a se stessi tra un capannone e l’altro. Come spesso accade dietro uno sgombero non c’è soluzione alternativa. Invisibili prima, invisibili poi. La situazione oggi, però, rischia di diventare persino più critica con il pericolo rappresentatao dalla pandemia e la necessità di misure che garantiscano la salute e la sicurezza di tutti.
Così oggi, a distanza di un anno dalla morte di Petty, i sindacati non vogliono solo ricordarla ma accendere di nuovo le luci sul problema del caporalato e sulle politiche d'accoglienza anche perché finora le richieste avanzate alla Regione Basilicata sono rimaste inascoltate eppure continuare a rinviare azioni e risposte, non agire in maniera decisa contro caporalato e sfruttamento, per assicurare condizioni igienico-sanitarie adeguate potrebbe comportare un prezzo individuale e collettivo molto alto.