“L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio - scriveva l’economista Alberto De Stefani - è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi”. Non esistono resoconti stenografici ufficiali della riunione con cui il Gran Consiglio del fascismo mise fine al ventennio ma esistono quelli dei testimoni, tra cui lo stesso Mussolini, i quali racconteranno - non sempre in maniera concorde - gli avvenimenti di quella lunga, storica notte.

La drammatica riunione dura dieci ore - annota Dino Grandi nei propri ricordi autobiografici - Ciano si alza in piedi con una proposta assurda, quella di fondere insieme l’ordine del giorno Grandi con l’ordine del giorno Scorza. La proposta cade fortunatamente nel vuoto. È a questo punto che il duce, giudicando di avere in pugno la maggioranza dell'assemblea, decide di mettere ai voti il mio ordine del giorno. La deliberazione da me proposta, quale surrogato di un voto parlamentare è approvata a grande maggioranza: 19 contro cinque. Con voce stupefatta il segretario del partito comunica all’assemblea i risultati della votazione. Dopo un attimo di silenzio il duce si alza e si avvia a passo lento verso l’uscita. Ferma con un gesto del braccio il segretario del partito, mentre questi si accinge a dare il consueto saluto al duce. Sulla soglia della sala del Mappamondo il duce si volge verso l’assemblea e dice: ‘Il Gran Consiglio stasera ha aperto la crisi del regime’”.

Per tutta la giornata del 25 luglio verrà mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto; solo alle 22:45 sarà data dalla radio la notizia della sostituzione del capo del governo. “Sua maestà il re e imperatore - verrà ufficialmente comunicato - ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, il cavaliere, maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio”. Meno di due mesi più tardi, il 3 settembre, verrà stipulato l’armistizio con gli alleati divulgato cinque giorni dopo.

“L’8 mio padre era a casa dei suoceri - annotava un giovanissimo Bruno Trentin sul proprio journal de guerre - mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso. Si era radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace… la Pace!… Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: ‘Italiani! Una grande notizia… Armistizio!… la guerra del fascismo è finita!… Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!’. La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa e in cinque minuti sono a casa di nonno. Irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: ‘Badoglio ha firmato l’armistizio!’. Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro… È la guerra che comincia!…. La guerra vera per l’Italia vera”.

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Pubblicato da Donzelli nel 2008 con un’introduzione di Iginio Ariemma, è stato trovato tra le sue carte qualche settimana dopo la sua morte. Nessuno ne conosceva l’esistenza. Bruno lo compila quando non ha ancora diciassette anni: tra il 22 settembre e il 15 novembre 1943. Quattro giorni dopo, sarà arrestato a Padova con suo padre Silvio, presidente dell’esecutivo militare del Comitato di Liberazione del Veneto
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Comincia così per l’Italia la Resistenza, una storia fatta di combattimenti, rappresaglie, repressioni, silenzi e grandi eroismi. Una storia scritta da uomini e donne alle e ai quali dobbiamo la nostra libertà. “Dopo aver dormito vent’anni - scriveva sempre Bruno Trentin - questo popolo martire fa sentire all’immondo aguzzino in camicia nera tutte le terribili conseguenze del suo risveglio. È in piedi oramai. Lo si era creduto morto, servitore, vile e codardo, e invece è là!”.

“Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi? - chiedeva Luciano Lama in uno dei momenti più drammatici per la vita del nostro Paese, il 25 aprile 1978, durante i terribili giorni del rapimento Moro - Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era più forte di noi? Noi abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera. (…) Oggi, in un momento drammatico della nostra storia, guardiamo con grande preoccupazione al presente e ricordiamo con giusta fierezza, anche se senza trionfalismo, la lotta di trent’anni fa. (…) I giovani devono crescere con questi valori, e sapere che la nostra generazione, pur con tutti i suoi limiti ed errori, ha creduto in qualche cosa e continua a crederci ed è capace di sacrificarsi e continua a sacrificarsi per questi valori. La nostra gioventù, così incerta e senza prospettive anche per nostre manchevolezze, deve ricevere da noi in questo momento una lezione, deve trovare in noi un esempio che come nel ‘43-’44 non è fatto di parole, ma di scelte dolorose, di sacrificio anche grande perché c’è qualcosa che vale di più di ciascuno di noi, conquiste faticate nella storia degli uomini, che ci trascendono e si chiamano democrazia, libertà, uguaglianza”.

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