Questo testo è un estratto di Mannaggia la miserìa. Storie di braccianti stranieri e caporali nella Piana del Sele, pubblicato da Ediesse. Il libro sarà presentato a Roma, mercoledì 10 giugno, ore 18 presso la Feltrinelli Librerie, Via V. E. Orlando. Ne discutono con l’autore: Giovanni Maria Bellu, vicedirettore de l’Unità; Alessandro Leogrande, Scrittore; Mohammed Nabil Benabdallah, Ambasciatore del Marocco in Italia; Morena Piccinini, Segretaria confederale della Cgil; Enrico Pugliese, Ordinario di Sociologia del lavoro, Sapienza Università di Roma



La macchina del caporale ci lascia sul ciglio della strada statale n. 18, all’altezza del chilometro 79. Non ci accompagna fino al campo di San Nicola Varco (mancano cinquecento metri). Scendiamo in fretta perché ha altri viaggi da fare ed è sempre in ritardo. Sulla strada, che è sempre molto trafficata, a quest’ora non passa quasi nessuno. Da lontano riesco a distinguere chiaramente lo sferragliare di un treno che passa veloce senza fermarsi alla stazione. Non l’avevo sentito mai così nettamente da questa lontananza. Il silenzio irreale intorno amplifica i suoni, sento perfino il segnale del timer del semaforo che regola la successione del rosso-giallo-verde. Imbocchiamo la strada che porta al campo, è dritta come un pioppo, ma non si vede un’anima. La canicola tiene tutti al fresco, a luglio la Piana bolle, le zolle e l’asfalto bruciano sotto i piedi. Dopo duecento metri percorsi su carboni ardenti arriviamo alla fontana. Nessuno lo dice, ma era da tempo che bramavamo con impazienza questo istante. Ci fermiamo e, ordinatamente, alla fine di tutto, possiamo finalmente dissetarci con acqua gradevolmente fresca.

Prima di bere ci bagniamo i polsi e la faccia per abbassare la temperatura corporea ed evitare eventuali traumi. Ci mancherebbe anche questo per completare l’opera! I fiumi di sudore che abbiamo lasciato nel pescheto ci hanno prosciugato. Mandiamo giù con avidità, l’acqua scende velocemente per andare ad assestarsi nelle zone asciutte del corpo. Discende con una rapidità tale che neanche l’assaporo. Ci vorrebbe proprio questa fontana nei campi. L’acqua che portiamo lì non ci basta mai, si esaurisce sempre in anticipo rispetto al previsto. E poi è calda. Ogni volta imprechi e ti arrabbi, in silenzio, con il caporale che non ne porta mai a sufficienza. Ma pure con te stesso, perché la mattina hai altro da fare e l’acqua pensi sia solo una complicazione marginale. E poi speri fiduciosamente che ci sia qualcun altro a occuparsene. Sciaguratamente non è così, non se ne ricorda mai nessuno, e ogni giorno non vedi l’ora di raggiungere la fontana per placare l’arsura.

Terminato l’abbeveraggio, riprendiamo la lenta marcia verso il campo. Poco oltre si giunge all’altezza del canale d’irrigazione. È un frammento del gigantesco sistema di collettori che ripartiscono le acque del fiume Sele alle aziende agricole della Piana. Questo fossato è tra quelli più capienti. Da esso si slegano tante diramazioni in condotte più piccole. Ha gli argini di cemento alti circa due metri, a forma di “V”, con la parte superiore larga circa quattro metri e quella inferiore uno. L’acqua scorre senza fretta, la profondità non supera i cinquanta centimetri in questo periodo. Si sente la corrente scivolare sul letto di cemento, sollevare un mormorio lieve, un fruscio rilassante. Senti sotto il naso il suo profumo. Tutto è così invitante in questa canicola. Come un’oasi nel deserto, che non ho mai visto, anche se sono africano. L’acqua è chiara e lucente, il canale somiglia a un fresco ruscello, nel fondo si vedono alghe e muschio. Un opportuno ringraziamento va agli operai del Consorzio di Bonifica, che da tempo non si vedono all’opera per la manutenzione e la pulizia del canale. Qualora intervenissero, il ruscello scomparirebbe per lasciare il posto al cemento; si scorgerebbe solo quello, sul fondo e sugli argini. I miei compagni sono tutti già lontani, hanno preferito ritirarsi, la voglia di fare in fretta una doccia e distendersi li ha spinti ad affrettare il passo.

Per me è diverso: l’acqua limpida che scorre lentamente, con questo caldo e dopo questa giornata, con i fiumi di sudore e le nuvole di polvere, è un invito al quale non so resistere. Nemmeno il pudore può trattenere il richiamo seduttore. Mi spoglio, e in mutande scendo piano lungo gli argini del canale. Metto i piedi nell’acqua, è fresca, una piacevole sensazione sale lungo le gambe e raggiunge subito la testa. Mi sdraio nel letto del canale. La fatica della giornata inizia a scorrere lentamente, rimorchiata via dall’acqua che mi attraversa e mi scorre addosso. In un istante si porta via sudore, polvere e lanugine di pesche. Non sento più neanche il mal di pancia. E importa poco se in quest’acqua possono esserci finiti avanzi di prodotti chimici adoperati per l’irrigazione e il trattamento dei terreni! Disteso qui, tra queste due ali di cemento, in mezzo ad un’immensa distesa di pomodori che maturano al caldo catturando i raggi del sole, sto finalmente godendo di un attimo di tregua alla calura, in questa caldissima, umidissima e faticosissima giornata.

Mentre tutto il corpo comincia a rilassarsi, penso a quella fitta rete di condotte che attraversano la Piana del Sele. Un’immensa ramificazione fatta di migliaia di chilometri di canali, rigagnoli artificiali che gorgogliano lentamente, si incontrano, alimentano lunghissimi tratti di tubazioni per trascinare e spingere l’acqua nelle distese infinite dei fondi. Acqua che sforacchia la terra per essere catturata dalle radici, acqua che viene aspirata dalle pompe per essere lanciata sulle piante. Un sistema complesso, costruito poco meno di un secolo fa dal regime fascista, che ha provveduto a bonificare tutta questa pianura, prima era un’immensa palude, quindi a creare una straordinaria rete per dosare e ripartire sia l’acqua risanata che quella del fiume Sele. Il funzionamento del sistema non mi è, però, del tutto chiaro, a partire dal principio. Non riesco a capire la dinamica secondo cui l’acqua continua a scorrere perennemente attraverso un territorio che a me sembra completamente pianeggiante. Visto che ci sono, dò una rapida lavata anche agli abiti e li stendo sugli argini di cemento; vedo subito il vapore che sale dai panni. Mi immergo altri cinque minuti e poi, ancora bagnato, indosso gli abiti che sono rimasti umidi, e con i capelli gocciolanti mi riavvio verso il campo. Mi sento molto meglio: in questi pochi minuti l’acqua ha compiuto una cosa straordinaria. Nella cultura araba essa è considerata la più sana e la più sacra delle bevande e degli elementi. Non deve mai mancare a tavola ed è il più giovane che deve servirla. Va bevuta a piccoli sorsi, mai tutta in una volta come abbiamo fatto poco fa sotto la fontana. Allah disse: “Io, con l’acqua, ho creato tutti gli esseri viventi”. Il Corano vieta di negarla a chi la chiede. All’entrata della Mecca i fedeli devono purificarsi con essa prima di entrare nel tempio. Quasi tutte le fontane pubbliche hanno il nome di un santo o di un profeta. È un bene prezioso che va amministrato con molta saggezza.

* Anselmo Botte è nato a Barile (Pz) e vive a Salerno. È stato per molti anni nella Segreteria provinciale della FLAI, la Federazione dei lavoratori dell’agro-industria della CGIL. Attualmente è nella Segreteria della Camera del lavoro di Salerno