Nel primo trimestre del 2017 l’aumento delle denunce di infortunio sul lavoro è stato del 5,9% rispetto al corrispettivo periodo del 2016, pari a 134 mila nei primi tre mesi dell’anno, con un segno più di 7.430 incidenti segnalati all’Inail, di cui 112 mila avvenuti nel luogo di lavoro e 22 mila “fuori dall’azienda”, vale a dire durante il percorso casa lavoro e viceversa. Questo veniva segnalato nella nota trimestrale congiunta di Ministero del lavoro, Istat, Inps e Inail, pubblicata il 27 giugno scorso.

Poi però una settimana dopo (il 5 luglio), lo scenario è cambiato e il presidente dell’Istituto assicuratore, Massimo De Felice, in occasione della presentazione del rapporto annuale Inail, dedicando all’argomento tre minuti scarsi, ha annunciato un ridimensionamento del fenomeno, segnalando un modesto +0,66%, riferito all’andamento delle denunce tra il 2015 e il 2016, senza aggiungere nessun altro elemento utile alla riflessione. Si dirà che le due indagini non sono comparabili, considerando i diversi periodi analizzati presi a riferimento, ma resta pur sempre il dubbio che sugli infortuni e le malattie professionali da qualche tempo a questa parte si sia diventati un po’ troppo reticenti.

Da qui la ragionevole certezza che chi ha poca dimestichezza con i numeri, fa fatica a farsi un’idea di cosa sia effettivamente migliorato negli ambienti di lavoro, in materia di sicurezza e prevenzione, tanto da giustificare il decremento. I dati nudi e crudi ci dicono che gli incidenti professionali sono rimasti sostanzialmente stabili se si prende a riferimento un anno, con grande soddisfazione dell’Istituto assicuratore che può annunciare addirittura una riduzione del fenomeno di circa il 14% allungando il periodo analizzato fino al 2012, ma crescono quasi del 6 per cento nel primo trimestre di quest’anno, dovuto “in buona parte, a un maggiore numero di giorni lavorativi nel primo trimestre 2017 rispetto ai primi tre mesi dell’anno precedente (64 giorni contro 62), con conseguente maggiore esposizione al rischio infortunistico”, come si legge nella nota congiunta del 27 giugno.

Nessuno può negare che la crisi economica abbia inciso profondamente negli ultimi 10 anni e che le aziende, pur di sopravvivere, hanno ridotto la manodopera con licenziamenti, resi più liberi per effetto del Jobs act, oppure stipulando con i propri dipendenti sempre più frequentemente contratti di lavoro a tempo determinato (a scapito di quelli a tempo indeterminato), che non a caso sono cresciuti di 322 mila solo nel primo trimestre 2017, oppure ricorrendo al lavoro a chiamata, anch’esso dato in aumento del 13,1% nei primi tre mesi di quest’anno (pag.2 della nota congiunta).

Il moltiplicarsi di tante forme contrattuali, oltre a rendere sempre più precaria l’occupazione, ha reso ancora più macroscopica la già marginale capacità istituzionale di controllare come si lavora oltre i cancelli di una fabbrica o di un capannone. La stessa azione ispettiva dell’Inail si ferma mediamente a poco più di 20 mila visite l’anno, su un bacino di 3 milioni e 760 mila posizioni assicurative territoriali. E quando le ispezioni si fanno, la realtà viene fuori. Nell’ultimo rapporto, l’Istituto segnala che su 20.876 aziende controllate nel 2016 (il 73% del terziario e il 23% dell’industria), l’87,6% è risultato irregolare; 57.790 i lavoratori sono stati regolarizzati e 5.007 quelli scovati “in nero”.

In questo contesto, l’ottimismo espresso dall’Inail negli ultimi 4 anni sugli infortuni e le malattie professionali si infrange perciò contro una situazione ben più articolata, che richiederebbe un maggiore approfondimento soprattutto da parte dello stesso Istituto.

“Il dato più inquietante – spiega Silvino Candeloro, del collegio di Presidenza Inca – è che si ha l’impressione di come la crisi abbia ‘anestetizzato’ l’attenzione delle istituzioni sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali fino a farlo diventare una sorta di ritualità che si consuma ogni anno, in occasione della presentazione del rapporto annuale dell’Inail. Dal nostro punto di osservazione, infatti, possiamo affermare che la sottostima delle denunce sia tutt’altro che marginale. I lavoratori, sempre più precari, subiscono il ricatto occupazionale che li induce a rinunciare a segnalare i rischi per la salute nei luoghi di lavoro e addirittura a far emergere ‘episodi’ compromettenti”.

“Per il Patronato della Cgil, il problema resta quello di smascherare quei licenziamenti, giustificati spesso dalla inidoneità alla mansione, causata da un infortunio o da una malattia professionale”. Un argomento per il quale l’Inail stesso, nonostante l’ottimismo dei dati, ha mostrato una certa sensibilità stanziando per quest’anno 21 milioni di euro per il reinserimento lavorativo dei disabili. “L’auspicio – spiega ancora Candeloro – è che queste risorse vengano spese davvero in progetti concreti, da realizzare con il concorso di datori di lavoro, sindacati e patronati, per dare delle risposte adeguate a una domanda di tutela sempre più crescente e che sfugge alla fredda lettura dei dati statistici sul fenomeno complessivo”.