“Per fare l’accordo sulla rappresentanza abbiamo impiegato a causa del sindacato un anno e mezzo, in un’epoca in cui le cose si muovono a velocità supersonica”. È difficile capire cosa può aver indotto un uomo esperto e industriale navigato come Giorgio Squinzi a tirare la corda della polemica – nella fattispecie con Cgil, Cisl e Uil –, anche a costo di incappare in un autogol tra i più clamorosi. Sì, perché il presidente di Confindustria – solitamente assai più propenso all’utilizzo di toni pacati – ha omesso di ricordare, nel corso del suo intervento alla Festa dell’Unità di Milano, che se è vero che il Testo Unico sulla rappresentanza ha conosciuto, prima della sua conclusione il 10 gennaio del 2014, una gestazione lunga e travagliata (e non certo per responsabilità della sola parte sindacale), è altrettanto vero che il ritardo nell’applicazione dello stesso è da attribuire per intero ai tempi lunghi con cui le imprese comunicano all’Inps i dati sulle deleghe sindacali; un compito che, non essendo per volontà confindustriale obbligatorio, molti degli associati a viale dell’Astronomia resistono a svolgere.

Insomma, l’associazione di Squinzi, a dispetto della firma apposta all’accordo del 2014 (scaturito, a sua volta, dall’applicazione degli accordi del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013), non sembrerebbe del tutto convinta della necessità (ma sarebbe più corretto dire dell’effettiva utilità) di un modello di calcolo della rappresentanza. Almeno, non ne sembrano convinti alcuni degli esponenti di importanti settori affiliati (non è un caso se, a oggi, hanno sottoscritto l’adesione al Testo Unico solamente l’associazione delle cooperative e quella dei servizi), oltre che di molte piccole e medie imprese.

E il motivo è tutto racchiuso nel fatto che l’aver individuato regole certe e trasparenti nell’ambito della rappresentanza, sostanzialmente nello svolgimento della contrattazione, significherà – o dovrebbe significare – per forza di cose un deciso salto di qualità nel sistema delle relazioni sindacali, con la conseguente e definitiva eliminazione della pratica consolidata di chiamare ai tavoli negoziali sigle di comodo – ora per essere ammessi alle trattative è necessario raggiungere la quota del 5% – e, soprattutto, grazie al recepimento nel testo del regolamento di un vero e proprio cavallo di battaglia della Cgil, vale a dire il voto dei lavoratori per l’esigibilità di ogni accordo; un vincolo che investirà, oltre ai sindacati, anche (si può immaginare con quanto entusiasmo) le imprese, essendo stati posti per la prima volta questi due soggetti su un piano di assoluta parità.

Tutte queste cose Squinzi si guarda bene dallo spiegarle. Preferendo dedicarsi al lancio di strali avvelenati all’indirizzo delle sigle confederali, indicate come l’ostacolo principale “all’ammodernamento e all’efficienza complessiva del paese”. Che dire? Forse il presidente di Confindustria farebbe bene, invece di allinearsi allo stile tanto in voga dalle parti di Palazzo Chigi, a esigere dai suoi associati un comportamento più responsabile, ricordando loro che se un accordo si contribuisce a metterlo nero su bianco, sarebbe anche il caso – per una questione di elementare coerenza – di non ostacolare la sua applicazione. Anche perché se negli ultimi anni qualcosa di moderno è stato realizzato nel campo delle relazioni industriali, questo qualcosa è ben presente nell’insieme di regole di cui si compone il Testo Unico.

Una modernità che potrebbe raggiungere il suo punto più alto se il Parlamento varasse una legge in materia di rappresentanza, rappresentatività e democrazia nei luoghi di lavoro. Solo la legge – ma si tratta di una convinzione di cui sembra farsi interprete la sola Cgil – sarebbe in grado di estendere il diritto alla rappresentanza all’intero mondo del lavoro, di parlare a quella gran parte di precari, lavoratori a progetto, partite Iva esclusi dalla possibilità di scegliere il sindacato a cui aderire. Il modo migliore per valorizzare il significato di una scelta strategica che, a partire dal 28 giugno 2011, passando per il 31 maggio 2013, per arrivare al 10 gennaio 2014, può rappresentare un punto importante e utile affinché sull’annosa questione del “chi rappresenta cosa (e quanto)” si possa dare una volta per tutte piena attuazione al dettato costituzionale.