“Sì, è davvero strano. Mai avrei potuto immaginare, in quella notte del marzo 1964, quando presi il treno per Torino, che poi nel mio paese, Melfi, un quarto di secolo dopo o poco più, sarebbe nato uno stabilimento della Fiat. Anche se, tanto per mettere i puntini sulle ‘i’, vorrei ricordare che a battersi fortemente per gli investimenti al Sud, già all'inizio degli anni 70, fu proprio il movimento sindacale, in testa la Flm, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici. Ricordi Reggio Calabria, la manifestazione dell’ottobre 1972 nella città dei 'boia chi molla', e Bruno Trentin che la volle a tutti i costi?”.

C’è orgoglio nelle parole di Bonaventura Alfano, ex operaio della Meccanica di Mirafiori, figura emblematica di quella generazione di giovani meridionali sbarcati nel triangolo industriale del Nord – e in Svizzera e in Germania – tra i 50 e i 60, protagonisti del sommovimento del ’68-69, diventati poi, sovente, dirigenti sindacali, di partito, uomini delle istituzioni – com’è il caso appunto del nostro interlocutore, che sarà consigliere comunale nelle giunte rosse di Novelli e assessore al Lavoro nella seconda (“senza mai abbandonare la fabbrica, però”, puntualizza) –. C’è orgoglio ma anche un po’ di amarezza: “Perché non abbiamo memoria – prosegue –, o perché sulla memoria facciamo troppo spesso solo retorica”. Vale la pena, allora, per provare a capire l’autunno nei luoghi forse più emblematici – Torino e la Fiat – affidarsi alla sua storia di vita.

“La mia storia? È semplice. Come ti dicevo sono venuto a Torino nel ’64: la strada di tanti e tanti altri meridionali. Lo sviluppo e il lavoro erano a Nord, nell’industria, le campagne del Sud non davano e non offrivano più nulla, tantomeno a un ragazzo che aveva voglia di sfuggire alle angustie, non solo economiche, del piccolo paese. Prendere il treno e andare su era l’unica cosa da farsi. È diventata la mia città, ci vivo bene. Ma era fredda allora, scostante, Torino: e inserirsi assai difficile. Il ‘non si affitta a meridionali’ che, la mente a quegli anni, sempre viene ricordato, non spuntava a caso. Mi servi ma non ti voglio vedere: come accade ora, con l’immigrazione extracomunitaria, in molte città (anche se ad affittare si affitta, la speculazione è il primo comandamento).

"E poi, su tutto, l’ingresso in fabbrica, il trauma della catena di montaggio. A Melfi un po’ di scuole le avevo fatte: dopo le medie, tre anni di istituto professionale. Ero un aggiustatore qualificato: sapevo usare bene la lima. Non al punto di fare i barbis a le musche, come dicevano i vecchi aggiustatori piemontesi – sì me lo ricordo, adoperai quest’espressione anche l’anno scorso quando per Rassegna commentammo con il professor Berta l’allestimento torinese di Rossa, la mostra del centenario Cgil, però mi sembra calzante, no? –; dunque: non fino al punto di fare i baffi alle mosche; ma sapevo cosa fosse un tornio, una fresatrice, l’apparecchio divisore, la scatola Norton. Avevo insomma qualche competenza. Non servì a niente. Quando mi ritrovai in fabbrica mi assegnarono al montaggio cambi e motori della Meccanica – la Meccanica era il secondo settore di Mirafiori per numero di occupati, eravamo in sedicimila, e costituiva il cuore della produzione perché era lì che si facevano i motori delle auto –. Tutto il giorno sempre le stesse operazioni: stupide, ripetitive, monotone; e, come non bastasse, in un clima che sembrava quello di una caserma: il lavoro organizzato in modo militaresco, un capo ogni cinquanta-sessanta operai, sempre lì che girava intorno alla linea”.

Era il taylorismo: il lavoro scomposto, frantumato, ridotto ai minimi termini, con il suo corredo di guardiani, capi e capetti, tutta la trama gerarchica incaricata di “sorvegliare e punire”, per dirla con Foucault. La metafora di un carcere. “Già – prosegue Alfano –. E un giorno, alla fine del mio turno di lavoro, mi ritrovai in via Po che agitavo le mani avvitando dei dadi immaginari. Era naturale che tutto questo creasse poi quella miscela esplosiva che si è sposata, dopo l’occupazione di Palazzo Campana, delle facoltà umanistiche, con il movimento degli studenti. Cominciammo a frequentarci: usavano molto la parola ‘classe’, questi ragazzi in lotta contro l’autoritarismo. Quando poi ci rendemmo conto che la classe eravamo noi – noi giovani operai curiosi che, poco accettati dalla città, cercavamo di sopravvivere leggendo –, cominciammo a guardarci intorno e a scoprire un po’ di più le organizzazioni, appunto, di classe e soprattutto il sindacato. Incontrammo chi già c’era, chi in fabbrica aveva lottato, per questo aveva conosciuto i reparti-confino, magari prima ancora era stato partigiano in montagna. Un incontro che non fu semplice, mondi e culture diverse, ma – come si dice – assai fecondo”.

Poi magari anche l’operaio comune – l’"operaio massa" caro alla tradizione operaistica – non arriva dal deserto, ha alle spalle una storia collettiva importante, una memoria di organizzazione: le immagini di Pane e libertà, la Puglia di Di Vittorio e delle leghe bracciantili che proprio qualche settimana fa hanno tenuto milioni di italiani incollati alla tv, qualcosa sono tornate a ricordare, no? “È vero, non è che venissimo dal nulla, avevamo anche noi una storia alle spalle. L’autunno nasce così. E ha un retroterra immediato nelle lotte che già nella primavera-estate avevamo condotto, conquistandoci le indennità per gli operai delle catene di montaggio e il diritto a eleggere i delegati di linea e di reparto; lotte il cui esito aveva spiazzato anche gruppi estremistici come Lotta Continua, che sino ad allora aveva avuto un certo seguito in alcune fasce di lavoratori – i ‘delegati bidone’, insomma, erano ormai una realtà –. E così venne il contratto, e le 65 lire di aumento uguale per tutti, perché c’era una forte spinta egualitaria – della Fim più che della Fiom –, la riduzione dell’orario di lavoro, l’assemblea retribuita, la parità normativa operai-impiegati, insomma tutte le conquiste mille volte elencate.

"E poi l’intervento sulla salute e contro la nocività e, insieme, la conferma delle figure dei delegati. Proprio a proposito di questo pensa che all’epoca, a rappresentare i 55-60mila operai, tecnici e impiegati Fiat c’era una ventina di membri di commissione interna. E che, fra l’altro, una parte di questi membri di commissione interna, quelli della Fiom, a causa del clima aziendale, erano anche un po’ impediti nei movimenti. In ogni caso, anche se avessero avuto tutta la libertà di questo mondo, davvero avrebbero potuto rappresentare gli interessi e i problemi di quei 60mila lavoratori? Ecco, i primi delegati nacquero dalla necessità di trovare una risposta a questo problema. E su una intuizione tutta torinese, di Sergio Garavini e Ivar Oddone: l’idea del delegato di gruppo omogeneo. Usavo dire ai miei compagni di lavoro, prima delle elezioni: ‘Io sono la lingua che parla, voi siete le mie corde vocali'.

“Certo, non furono rose e fiori. E ci costò. Anche questo un particolare che spesso si dimentica. C’è una canzone di Franco Trincale, il cantastorie siciliano pure lui emigrato al Nord, che recitava: ‘Alla mugghiera mia pe’ Natale ci faccio stu bellissimo regalo. È nu regalo che mi è costato quattro mesi di paga ammetata’. Quattro mesi di paga a metà. Perché quattro mesi era durata la lotta dei metalmeccanici: duecento ore di sciopero. Ma ne valse la pena”.