C’è un’aria stanca che aleggia intorno alla parola “referendum”. Un tempo era sinonimo di riscatto popolare, di chiamata solenne alla coscienza collettiva. Oggi, invece, viene evocato come un rito svuotato, il cui esito – a prescindere – sembra già scritto da un silenzio assordante: l’astensione. E chi canta vittoria di fronte all’apatia di milioni di cittadini, come se il mancato quorum fosse un trionfo, non celebra la democrazia, ma la sua sconfitta. Una vittoria piuttosto amara, miope, autocelebrativa.

In un Paese dove più della metà degli aventi diritto diserta le urne, la classe dirigente dovrebbe interrogarsi, non brindare. Il referendum, lo strumento più diretto e più nobile della sovranità democratica, è stato nei fatti svuotato del suo potere trasformativo, rimosso dal dibattito pubblico, delegittimato dai vertici istituzionali, quando non silenziato da media distratti o compiacenti.

La celebrazione del disagio

Il disegno è stato accurato. Prima la delegittimazione tecnica, con l’inammissibilità di quesiti considerati “non condivisibili”. Poi la rimozione politica, con l’assenza di qualsiasi spazio di confronto. Infine, la celebrazione della sconfitta della partecipazione come se fosse una vittoria del governo. Non è stato solo un sabotaggio di uno strumento, ma di un principio: quello per cui la sovranità appartiene al popolo, anche quando non conviene.

Eppure l’istituto referendario non è un reperto museale della Prima Repubblica. È ancora, potenzialmente, la leva per correggere gli squilibri del sistema, per riequilibrare i poteri, per dar voce a istanze che non trovano ascolto nella politica rappresentativa. Ma perché possa funzionare, dev’essere credibile, accessibile, visibile. Oggi non lo è.

L’astensione come strategia

Il vero problema non è solo che la gente non vota. È che l’astensione viene favorita, normalizzata, quasi desiderata. È il sintomo di un regime che, pur democratico nella forma, non ama essere disturbato nella sostanza. Un sistema che teme il giudizio diretto dei cittadini, perché non sa come governare il conflitto se non neutralizzandolo. Chi governa con la forza della disattenzione sa che l’apatia è l’alleata perfetta. Un elettorato stanco, disilluso, cinico, è più facile da contenere di un popolo mobilitato. Ecco allora il vero nemico: non l’opposizione parlamentare, ma la partecipazione popolare. Non chi vota “no”, ma chi osa votare “sì”.

L’astensione strutturale non è frutto del caso. È il risultato di una sfiducia alimentata ad arte, che si nutre di ogni rinvio, di ogni bocciatura, di ogni occasione perduta. E nel frattempo, si riscrive la Costituzione a colpi di riforme sbilanciate, si concentrano i poteri, si sfilaccia il principio di eguaglianza. La “distrazione delle masse” è il vero capolavoro dell’attuale assetto politico.

Nessuno ha vinto davvero

L’illusione che la partita sia chiusa — e chiusa a favore di chi governa — è una tentazione pericolosa anche per la destra. Non solo perché i numeri dell’astensione raccontano un vuoto più che una vittoria, ma perché persino quei 13-14 milioni di voti raccolti dai promotori, pur non bastando, rappresentano una base politica e culturale reale. Non automaticamente trasferibile sul piano elettorale, certo, ma nemmeno trascurabile o neutralizzabile con leggerezza.

Anche chi oggi esulta rischia domani di sbattere contro lo stesso muro di sfiducia, se non capisce che la domanda di partecipazione, di rappresentanza e di voce dal basso è ancora viva, anche se non si manifesta nei modi attesi. Le urne non hanno decretato un vincitore assoluto, ma hanno suggerito che nessuno, oggi, può permettersi di giocare da solo. E che ignorare ciò che si muove fuori dal palazzo è il modo più sicuro per perdere davvero.

La sinistra al bivio: presenza o lamento

Ma non tutto è maceria. I milioni di voti favorevoli ai quesiti referendari sul lavoro — raccolti pancia a terra e contro il silenzio generale — sono un patrimonio reale. Non solo numerico, ma simbolico. Un termometro di partecipazione che mostra come, laddove si sono mantenuti legami con i territori, con i movimenti, con i corpi sociali, la risposta è arrivata. In alcune città e regioni, l’affluenza ha superato abbondantemente la media nazionale. Segno che una sinistra ancora viva, benché frastagliata, può parlare un linguaggio comprensibile e credibile.

Ma è necessario fare una scelta di campo. Non si può più oscillare tra l’autocompiacimento della minoranza rumorosa e la ricerca ansiosa di legittimazione al centro. La sinistra, se vuole davvero tornare a essere popolare, deve smettere di delegare la propria identità alle sintesi dei gruppi dirigenti e tornare a misurarsi con le piazze, i luoghi di lavoro, le periferie, i giovani, i nuovi italiani. Perché è lì che si vota davvero.

Quorum di carta

C’è però chi legge nel mancato quorum non una sconfitta della democrazia, ma la sua difesa. Secondo questa visione, l’astensione rappresenterebbe una forma di maturità elettorale: non solo disinteresse, ma anche discernimento, un giudizio consapevole e negativo sul merito dei quesiti proposti, oppure una critica implicita all’abuso strumentale dell’istituto referendario da parte di forze politiche in cerca di visibilità. In quest’ottica, il quorum non sarebbe un limite castrante, ma una clausola di garanzia, un presidio costituzionale a tutela dell’equilibrio tra democrazia diretta e rappresentanza parlamentare. È una lettura che ha una sua logica formale, che richiama la necessità di selezionare con rigore i contenuti referendari, evitando derive demagogiche o tentazioni plebiscitarie. Ma è una visione che, se presa come assoluta, rischia di confondere l’eccezione con la regola, la difesa del sistema con la sua cristallizzazione, la prudenza con l’immobilismo.

Perché se l’astensione diventa la modalità dominante di rapporto con le urne, se la partecipazione popolare viene svuotata nel nome della stabilità, se la sfiducia verso il voto si fa sistema, allora non si preserva nulla: né la vitalità del Parlamento, né la legittimità delle decisioni pubbliche, né il tessuto vivo della cittadinanza. Una democrazia che si abitua all’assenza dei suoi cittadini, che considera la non partecipazione come fisiologica, che derubrica il dissenso a disturbo, è una democrazia che ha smarrito il coraggio di ascoltare e la capacità di rigenerarsi. Il vero nodo non è il quorum in sé, ma ciò che esso oggi segnala: un patto civile indebolito, una distanza crescente tra chi decide e chi dovrebbe contare, una cultura politica che preferisce il controllo al conflitto, la delega alla deliberazione.

Non basta dire che il popolo ha sempre ragione quando tace. Bisogna domandarsi perché tace, chi ha interesse a mantenerlo in silenzio, e come si può restituire forza, dignità e fiducia alla sua voce. Perché una società che smette di votare non è per forza una società matura. Può essere, molto più semplicemente, una società rassegnata. E la rassegnazione, in politica, è il preludio di ogni deriva.

Il prezzo della democrazia

Tra le reazioni più insidiose al fallimento del quorum, si fa largo – neanche troppo velatamente – l’idea che l’istituto referendario andrebbe “riformato” o, nei fatti, archiviato. Troppo costoso, troppo inutile, troppo faticoso. È l’argomento contabile travestito da efficienza, che misura la democrazia col metro dei bilanci, non dei diritti. Ma è un ragionamento pericoloso, perché ci porta a pensare che la sovranità popolare sia un lusso, un esercizio da concedere solo quando conviene o quando i numeri promettono successo.

Come se la cittadinanza attiva fosse un optional, non un pilastro costituzionale. Abituarsi all’idea che si vota solo quando costa poco – e quando si è sicuri del risultato – è il primo passo verso una società in cui il voto perde valore e senso. Dove si partecipa solo se si può, se si ha tempo, se si ha un tornaconto. Ma la democrazia non si misura con l’euro: si misura con la libertà. E non c’è libertà senza la possibilità reale, concreta, effettiva di decidere. Anche, e soprattutto, quando costa.

Riprendersi il voto

Il referendum non è dunque morto. È stato volutamente messo da parte, chiuso in un cassetto, disinnescato. Ma può rinascere. A patto che lo si liberi dalle sabbie mobili dell’ipocrisia istituzionale, dell’opportunismo politico, dell’autolesionismo culturale. Serve un’operazione di verità, di riconquista, di ricostruzione del legame tra cittadini e istituzioni. Serve coraggio, serve visione, serve presenza.

Riprendersi il voto significa ridare senso alla democrazia. Non per farne una liturgia stanca, ma per rianimarla nel cuore stesso della società. L’alternativa non è tra referendum sì o referendum no. L’alternativa è tra partecipazione o rassegnazione. Tra una società che pensa, lotta e vota, e una che abdica, si distrae, e applaude chi ha già deciso per lei.