Si potrebbe sintetizzare così: nel corso di oltre settant'anni di storia della Repubblica italiana il mondo del lavoro a tutti i suoi livelli (lavoratori, sindacati, forze politiche, istituzioni legislative, quindi politiche del lavoro) è stato attraversato da un costante braccio di ferro tra precarietà e stabilità, tra impulso a stabilizzare e tutelare e forze “precarizzanti”. Nella prima parte di questa storia, seconda metà del Novecento, trentennio glorioso, il principio della stabilità, se non altro come tendenza e spinta, ha vinto. Nella seconda parte, dagli anni Ottanta fino a oggi, ha perso. Sulla precarietà, dunque, ci siamo sbagliati. L’abbiamo considerata un fenomeno del nostro tempo. Della società globale postfordista. Ma c’è sempre stata, sebbene assumendo volti e modi diversi, e ogni generazione l'ha dovuta subire e affrontare. È sempre stata lì, ferita aperta eppure avversata e contenuta e sconfitta da avversari che nei decenni passati hanno creato un mondo del lavoro con la stabilità e i diritti al centro. Quello che è cambiato, nei nostri anni, è che gli avversari si sono indeboliti, soprattutto sul piano politico e legislativo. E la precarietà ha ripreso a dilagare. 

Questo e molto altro si impara dalla lettura di Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana (Carocci, 2019), saggio della storica del lavoro Eloisa Betti che offre uno sguardo di lungo periodo, oltre un settantennio, su un tema che ha attraversato, modificandosi ma conservando inquietanti continuità, tutti i decenni della nostra storia, dalle lotte e conquiste degli anni Cinquanta e Sessanta fino ai nostri giorni. Lo studio esamina ed espone fonti sindacali e legislative, letteratura specialistica, e ricostruisce compiutamente la parabola storica della precarietà del lavoro nell'Italia repubblicana.

“Un fenomeno – ci spiega Eloisa Betti in questa intervista – che non è stato, nella storia del capitalismo, qualcosa di eccezionale, ma la norma. La letteratura specialistica che, in particolare a partire dagli anni Ottanta, iniziò ad analizzare il problema della precarietà, lo fece con uno sguardo di breve periodo e concentrato solo sui paesi occidentali. Questo è il motivo per cui per lungo tempo abbiamo considerato la precarietà un’eccezione. Perché il termine di paragone immediato era l'acquisizione di una serie di diritti del lavoro e sociali che si era collocata nel ‘trentennio glorioso’, ossia nella fase non solo di massima crescita economica del Novecento, ma anche di massima espansione dei diritti sociali. Quello che sostengo non è che la precarietà sia stata sempre uguale a sé stessa. Ha attraversato molti cambiamenti, sul piano delle categorie e dei soggetti coinvolti. E anche dei governi e dei poteri pubblici che l’hanno affrontata. Allargando lo sguardo all’ultimo settantennio, si colgono però elementi di continuità del fenomeno”.

Quali sono?

“Il primo tema, che anche oggi è al centro dell'attenzione del dibattito pubblico, è la garanzia del reddito: la grande discussione che si aprì negli anni del boom economico e negli anni della programmazione riguardava una serie di categorie non coperte da strumenti di sostegno al reddito. Un altro aspetto, che ci collega direttamente all’attualità, è la persistenza di forme e di rapporti di lavoro intrinsecamente instabili: penso ad esempio ai contratti a termine e ai lavori in appalto. Credo sia uno degli aspetti più interessanti in termini di continuità. Queste sono forme lavorative che per lungo tempo si è pensato riguardassero la fase attuale del mercato del lavoro, e che fossero conseguenti alla riorganizzazione postdfordista del sistema produttivo. Ho cercato di evidenziare, invece, come questi processi fossero presenti già nella fase di costruzione del cosiddetto sistema fordista, in quella stagione che poi terminò con l’estensione a una galassia di lavoratori e lavoratrici delle tutele dello Statuto, insieme a una più ampia gamma di garanzie sociali”. 

Tutele che non nacquero solo perché si era aperto un ciclo economico positivo...

Non dobbiamo pensare che la stabilità lavorativa sia stata una conseguenza del progresso economico e industriale che caratterizzò gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta fino alla crisi degli anni Settanta. Bisogna invece scavare da una parte nelle rivendicazioni, nei movimenti dei lavoratori, dall'altra nell'azione politica a livello parlamentare e governativo, mettendo in evidenza il ruolo delle organizzazioni sindacali e delle loro lotte, sia sul piano contrattuale, sia all’interno delle istituzioni parlamentari. Lotte che negli anni Sessanta portarono all’approvazione di provvedimenti fondamentali, come la regolazione dei contratti a termine o il ridimensionamento (fino all’eliminazione) dell’appalto di manodopera. In quella stagione forze sociali, sindacali (dalle commissioni interne fino a dirigenti dell'importanza di Giuseppe Di Vittorio, Donatella Turtura e Luciano Lama), politiche e parlamentari condivisero un principio: quello dell'importanza della dignità del lavoro, e si convinsero che la stabilità lavorativa dovesse essere un elemento centrale. Se non ci fosse stata questa azione combinata degli attori sociali e politici, probabilmente lo scenario sarebbe stato diverso. Allargando lo sguardo, ci si rende conto che la stabilità lavorativa associata a diritti e garanzie è stata una caratteristica dei paesi occidentali e in particolare dell'Europa occidentale, ma non ha incluso molte altre economie nazionali, dove la precarietà è rimasta la norma e la stabilità non è mai diventata l’elemento cardine dei rapporti di lavoro”.

Il suo libro ricostruisce diverse ondate di precarietà nella storia italiana del lavoro...

“Gli anni Cinquanta sono un periodo di precarietà generalizzata e manifesta. Non ci sono protezioni rispetto alla libertà di licenziare, le forme lavorative sono intrinsecamente instabili. Pensi ad esempio al lavoro a domicilio. In quella fase la precarietà contraddistingue largamente i rapporti di lavoro. Lo Statuto segnerà l'apice, il raggiungimento delle massime tutele per i lavoratori sul piano del diritto. Ma la crisi degli anni Settanta innesca una nuova ondata di precarietà. In quegli anni assistiamo alle prime forme di autorganizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici precarie, con un'azione importante delle organizzazioni sindacali, ad esempio nell'ambito della scuola e dell'università. Un'altra ondata di precarizzazione, che si innesta su quelle precedenti e le aggrava, è sicuramente determinata dall'ultimo ciclo economico, dalla crisi globale del 2008. Da lì inizia un’ultima spinta che porta a una sorta di ‘normalizzazione della precarietà’”.

Il lavoro delle donne, termometro della febbre precaria

La condizione femminile accompagna la storia della precarietà dall’inizio alla fine. Dal lavoro a domicilio, dalle gelsominaie del secolo scorso alle dimissioni in bianco dei nostri anni. Anzi si può dire che la questione di genere sia sempre stata un innesco per determinare consapevolezza e argine alla precarietà. Il lavoro delle donne come una sorta di termometro. La misurazione di uno stato febbrile che dava poi il “la” all’azione sindacale, all’inchiesta, all’intervento normativo.

“Nel mio studio ho utilizzato la prospettiva di genere e l'analisi della condizione lavorativa femminile come strumenti per leggere la precarietà, anche per quelle fasi storiche di cui si è pensato a lungo che ne fossero prive. Mi riferisco agli anni del boom e della programmazione economica. In quella stagione ci fu una discussione, che sostanzialmente è stata rimossa dalla storiografia, sulla piena occupazione femminile e sulla rivendicazione da parte dei movimenti femminili, delle associazioni, del sindacato di un’occupazione stabile e qualificata per le donne. Le lavoratrici, come lei ha detto, sono il termometro delle oscillazioni, dei processi di precarizzazione, perché più esposte alla precarietà per almeno due ragioni. La prima – e purtroppo questo è un elemento di continuità dagli anni Cinquanta alla condizione contemporanea – è una relazione negativa tra la sfera del lavoro extradomestico e la sfera di quello che si è definito a lungo come lavoro riproduttivo, che oggi viene contestualizzato come lavoro di cura e che pesa tuttora sulle spalle delle donne. È un elemento che indebolisce e discrimina all'interno del mercato del lavoro. Questo aspetto si può comprendere sul lungo periodo osservando il fenomeno delle dimissioni in bianco. La seconda ragione è che le donne sono assunte spesso con forme contrattuali atipiche o precarie e faticano ad essere stabilizzate. Questi sono elementi di lungo periodo che si innestano su un terreno culturale, che purtroppo si ripresenta ciclicamente, in particolare nelle fasi di crisi, e che riguarda il ruolo attribuito al lavoro femminile all'interno della società. C’è poi il diritto alla maternità, e come questo diritto viene salvaguardato e supportato dallo Stato: nella storia che io ho cercato di raccontare il tema dei servizi di welfare legati all'infanzia emerge più volte, auspicato dalle donne come elemento per rendere l’occupazione femminile più stabile”.

C’è poi la questione del part time...

“In una fase più contemporanea si arriva alla discussione sul part time per le donne. Un elemento che esemplifica la possibilità di creare dei rapporti contrattuali che siano anche utili alla conciliazione tra vita e lavoro. Ma se non liberamente scelto, se involontario, finisce col tradursi in ulteriori vincoli e disuguaglianze, come sta accadendo in questi anni di crisi. Va detto che le donne si sono fortemente mobilitate per ottenere condizioni di lavoro più stabili. C’è stata, nel corso di questa lunga storia, una elaborazione sulla precarietà da parte delle associazioni femminili che si è legata espressamente al tema dell'autodeterminazione personale, privata e familiare”. 

La fine delle grandi inchieste parlamentari

In passato inchieste e commissioni parlamentari hanno scandito una storia importante di attenzione da parte delle istituzioni verso il mondo del lavoro. Il suo libro attribuisce a questo tema un ruolo centrale, direi propulsivo per la legislazione e per la cultura della stabilità. 

La grande inchiesta parlamentare degli anni Cinquanta (la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori, 1955-1958, ndr) segna uno snodo importante in questa storia della precarietà, perché dura vari anni e si colloca nel periodo di transizione dell'Italia da Paese prevalentemente agricolo a potenza industriale, e va ad analizzare nel dettaglio le condizioni di lavoro. Dall’indagine emersero i fenomeni che ricordavo prima, e una grande attenzione per i licenziamenti discriminatori che coinvolgevano in particolare la manodopera femminile. Quella inchiesta ebbe una rilevanza se vogliamo maggiore rispetto ad altre più note dello stesso periodo, perché condizionò il successivo percorso legislativo. I risultati furono utilizzati dai parlamentari che stavano discutendo la legge sul lavoro a domicilio, approvata nel 1958, la legge sui licenziamenti per matrimonio e contro le clausole di nubilato, approvata nel 1963, ma anche le leggi su appalti e contratti a termine di cui parlavo prima. Fu un’analisi molto capillare e complessa, e costituì la base empirica per l’elaborazione delle legislazioni sul lavoro. L’abuso del contratto a termine fu dimostrato dalla documentazione raccolta dall'inchiesta, così come le pratiche di licenziamento discriminatorio, o il fatto che i lavori in appalto generassero situazioni di competizione al ribasso tra lavoratori assunti dall’azienda principale e lavoratori assunti da altre aziende in appalto: fenomeni molto simili a quelli contemporanei”. 

In tempi più vicini a noi sembra che tutto ciò sia finito...

L'ultima fase storica, gli anni Duemila, vede sicuramente un'azione meno incisiva relativamente alle condizioni di lavoro degli italiani. La discussione parlamentare è meno assente di quanto si è sedimentato nella nostra memoria collettiva. Tuttavia ci sono delle occasioni mancate. Alcuni membri del Parlamento a metà degli anni Duemila, durante il secondo governo Prodi, auspicano un’inchiesta parlamentare che non si farà mai. Nei nostri anni una vera e propria analisi promossa dal Parlamento, attenta agli strumenti del mercato del lavoro e alle condizioni della precarietà, è assente. Abbiamo indagini importanti condotte in collaborazione col Cnel e altri soggetti, ma viene meno il legame tra inchiesta e azione parlamentare che, invece, nei primi decenni dell'Italia repubblicana portò al miglioramento delle condizioni di lavoro da una parte, e della legislazione dall'altra. Non è un caso che l'ultima importante iniziativa sia venuta dal sindacato, la Cgil, con la proposta di una Carta dei diritti universali del lavoro. Va anche detto che, dagli anni Ottanta in poi, l'azione parlamentare e la regolamentazione dei rapporti di lavoro è stata in larga parte condizionata dal paradigma della flessibilità. Il concetto di stabilità è assunto come valore nel primo trentennio dell'Italia repubblicana, successivamente perde il suo interesse per larga parte del mondo politico attento alla regolamentazione o alla deregolamentazione del mercato del lavoro”.

La sbornia della flessibilità

Stiamo parlando della stagione dei miti (flessibilità, flexicurity). Una stagione lunghissima che, alla prova dei fatti, si è dimostrata fallimentare. Non si è costruito un sistema di tutele adeguato entro un mercato del lavoro sistemicamente spinto verso la precarietà. A leggere il suo studio, sembra che tutto parta dagli anni Ottanta. In Italia le politiche del lavoro introdussero anche elementi importanti di flessibilità in entrata (contratti part time, apprendistato, formazione lavoro), ma poi cosa è successo?

“All’interno degli studi sulla flessibilità gli anni Ottanta non sono stati analizzati molto. Il centro dell'attenzione va sempre agli anni Novanta. Ma gli anni Ottanta sono altrettanto importanti. Innanzitutto perché c'è un cambiamento di paradigma di carattere culturale. Non a caso nello studio mi soffermo sulle diverse accezioni di flessibilità che si sviluppano su tre livelli – impresa, rapporti di lavoro, politiche pubbliche – nei quali il cambio di paradigma diventa centrale e si associa a un altro aspetto, l’idea di modernizzazione. Si sviluppa una riflessione che va nella direzione di associare flessibilità e modernizzazione dei rapporti di lavoro e del mercato del lavoro. Dai governi degli anni Ottanta (quelli guidati da Craxi e da altri esponenti politici) viene assunto il principio che il nuovo mercato del lavoro debba essere maggiormente flessibile. L'idea di stabilità diventa negativa perché si connota come rigidità. Quindi c'è un cambiamento importante sul piano semantico, non solo nell’opinione pubblica ma anche nel dibattito politico e scientifico. Il leit motiv, che poi proseguirà negli anni Novanta e Duemila, dettato a livello internazionale anche dall’Ocse, è che la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro migliora la performance occupazionale”.

Quasi un pensiero unico, che perdura... 

“L’interrogativo che soggiaceva al dibattito tra economisti, decisori politici, sindacalisti era se e come la flessibilizzazione del mercato del lavoro potesse favorire l’occupazione e la lotta alla disoccupazione strutturale, entro l’emergenza percepita della crisi occupazionale e dei processi di deindustrializzazione. Dagli anni Novanta la flessibilità entrò a far parte delle strategie di contrasto alla disoccupazione. Il problema della sicurezza si affacciò solo negli anni Duemila col concetto di flexicurity. Ma questa riflessione si è infranta, nell'ultimo decennio, contro gli effetti dell’ultima crisi economica globale, perché l’ipotesi di associare flessibilità e sicurezza è stata messa in discussione dall’impossibilità di finanziare un sistema di welfare universale e inclusivo quale dovrebbe essere in presenza di una flessibilizzazione sempre più spinta”.

Così siamo arrivati al presente...

E nel presente ritroviamo il problema: lo squilibrio di garanzie per contratti di lavoro precari o forme di lavoro autonomo, una galassia di lavoratori privi di strumenti di sostegno al reddito. Se ci pensiamo, la rivendicazione di questi giorni riguardo a un reddito di quarantena in piena epidemia di Coronavirus riguarda ancora una volta il tema sempre più bruciante della disuguaglianza e della precarietà”.

È una lunga storia, insomma, proprio come la racconta il suo libro.

“Purtroppo sì”.