Anche le lavoratrici e i lavoratori che svolgono lavori part time obbligati dai cicli organizzativi (le mense scolastiche, la ristorazione, il turismo, lavori legati alla stagionalità, per esempio) hanno diritto a una pensione “normale” e quindi alla possibilità di spalmare su tutto l'anno la contribuzione previdenziale, anche durante i periodi di sospensione del versamento. Il provvedimento è stato annunciato dalla ministra Nunzia Catalfo in uno degli incontri con i sindacati sulle misure urgenti sulle pensioni da inserire nella legge di bilancio. Fonti del ministero confermano a Collettiva.it che il provvedimento sarà inserito nella manovra e avrà la copertura finanziaria necessaria (si parla di circa 25 milioni). La lunga battaglia sindacale condotta in questi anni dalla Cgil e da alcune categorie maggiormente coinvolte nel part time ciclico verticale (la Filcams e la Flai in modo particolare) insieme al patronato Inca sta quindi per arrivare al traguardo riconsegnando a migliaia di lavoratori un diritto negato.

Una sentenza storica
Tutto era cominciato con una sentenza della Corte di Giustizia europea del 2010 che esprimendosi su casi specifici ha riaffermato un principio: “L’anzianità contributiva utile ai fini della data di acquisizione del diritto alla pensione deve essere calcolata per il lavoratore a tempo parziale come se egli avesse occupato un posto a tempo pieno, prendendo integralmente in considerazione anche i periodi non lavorati che corrispondono alla riduzione degli orari di lavoro prevista in un contratto di lavoro a tempo parziale e discendono dalla normale esecuzione di tale contratto e non dalla sua sospensione”.

Decine di cause contro l'Inps
Sulla base di questo indirizzo la Cgil e l’Inca hanno avviato in questi ultimi anni una serie di cause contro l’Inps che continua a negare il diritto alla contribuzione completa per tutti quei lavoratori che, pur avendo un contratto a tempo indeterminato, svolgono lavori con interruzioni cicliche durante l’anno. È il caso appunto di molti settori del commercio e dei servizi, dell’agricoltura e del turismo, dei servizi di pulizia mensa nelle scuole (che in estate rimangono chiuse). “Se ti fermi per due o tre mesi l’anno – ci spiega Cinzia Bernardini, segretaria nazionale della Filcams Cgil – e in quei mesi i contributi previdenziali non vengono versati, diventa impossibile raggiungere il tetto dei 40 o 41 anni di contributi. Tutte queste lavoratrici e lavoratori dovrebbero versare 50 o 51 anni di contribuiti, dieci in più degli altri. Una cosa oggettivamente impossibile”. E si tratta di un bacino di lavoratori non da poco visto che solo per la scuola sono coinvolte almeno 60.000 persone. Si calcola che sommando i vari settori si arriva facilmente a una cifra superiore alle 200.000 persone in vari settori produttivi e commerciali. 

Riconoscere un diritto
La battaglia del sindacato e dell’Inca si è quindi concentrata sul riconoscimento pieno della contribuzione versata, anche durante la sospensione del lavoro per costruire una pensione completa. Ovviamente la richiesta è quella di riconoscere anche il passato e quindi tutti i periodi svolti con un contratto di lavoro a part time verticale

Videomessaggio ai parlamentari
In un video disponibile su Youtube una efficace sintesi del problema del part time verticale e delle richieste dei sindacati a cura delle organizzazioni sindacali Cgil, Cisl, Uil del commercio e del turismo della Lombardia:

Epilogo
Ora il Ministero del lavoro ha presentato uno schema di provvedimento che sarà inserito nella legge di bilancio con cui si interviene per sanare l’anomalia previdenziale e dare una risposta in termini di giustizia ai lavoratori. Fonti del ministero – nonostante le consuete tensioni sull’entità delle risorse richieste dai singoli dicasteri per la manovra complessiva – confermano la volontà di portare a termine la questione. Si calcola che l’operazione potrebbe comportare un onere di spesa di circa 25 milioni per il 2021. Ma sono soldi bene spesi, per due semplici motivi: da una parte si sana quella che appare come una vera e propria ingiustizia e una negazione di un diritto, ma dall’altra, si tratta paradossalmente anche di un risparmio per lo Stato e per il bilancio dell’Inps, visto che per ogni causa persa dall'Istituto, vi è la condanna al pagamento delle spese legali (circa 2.000 euro per ogni causa).