Il primo numero de L’Alba, giornale dei prigionieri di guerra italiani in Unione sovietica, compare il 10 febbraio 1943, sotto la direzione di Rita Montagnana.  Il periodico - composto fin dalla nascita da quattro pagine (la prima generalmente dedicata alle operazioni sul fronte russo-tedesco, la seconda contenente articoli di elogio e apologia del sistema sovietico, della sua organizzazione sociale e politica, delle realizzazioni dell’industria e dell’agricoltura, la terza composta da articoli e scritti degli internati stessi sulla condizione di vita nei campi, la quarta e ultima pagina dedicata alle “Notizie da tutto il mondo”) e dopo i primi quattro numeri diretto da Edoardo D’Onofrio, poi da Luigi Amadesi e Paolo Robotti - esce ogni 7-10 giorni al mese e raggiunge in breve una tiratura di 7.000 copie, per un totale complessivo di 144 numeri, l’ultimo dei quali pubblicato il 15 maggio 1946.

Così, il 14 settembre 1943, il giornale informava i prigionieri della firma dell’armistizio: “Il giorno 8, alle ore 17,30 il generale Eisenhower comandante in capo degli eserciti alleati operanti nel Mediterraneo, ha reso noto al mondo la richiesta dell’Italia di uscire dalla guerra (…) L’annuncio della firma dell’armistizio s’è diffuso in Italia in un baleno nel pomeriggio del giorno 8 di settembre. Immediatamente la popolazione s’è riversata per le strade, abbandonando le case e il lavoro, per manifestare il suo giubilo. Dimostrazioni grandiose si sono avute a Roma, Milano, Torino, Como, Genova, Firenze, Bologna e Napoli. Corrispondenti di giornali esteri di paesi neutrali, informano che la gente per le strade, la sera dell’8, piangeva della gioia. I passanti, incontrandosi, si abbracciavano e dicevano: finalmente ci siamo. Grida di ‘viva la pace’ risuonavano dappertutto. Folle considerevoli di credenti si sono riversati nelle chiese per dire le loro preghiere di ringraziamento”.

“L’Italia si è desta - è il commento di spalla alla notizia -. L’Italia è in piedi. L’Italia combatte per schiacciare il nemico secolare della sua indipendenza. La lotta contro i tedeschi è una lotta sacra, patriottica, dalla quale dipende tutto il futuro d’Italia (…). Il vecchio grido di guerra del Risorgimento torna oggi a essere la parola di raccolta di tutti gli italiani; ‘Va fuori d’Italia! Va fuori straniero!’”. Oltre 60.000 prigionieri di guerra italiani saranno catturati dall’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Quasi tutti nel dicembre del 1942 durante l’offensiva sovietica denominata ‘operazione Piccolo Saturno’. 10.085 prigionieri saranno rimpatriati tra il 1945 e il 1954. Il destino individuale di 30.430 soldati è meno noto. Si stima approssimativamente che circa 20.000 uomini abbiano perso la vita a causa dei combattimenti e 10.000 uomini siano morti tra il momento in cui sono diventati prigionieri e il momento in cui si sono registrati all’interno dei campi.

Il loro caso sarà usato in modo strumentale dai partiti di centrodestra che accuseranno l’Unione Sovietica di non restituire i prigionieri di guerra italiani. I partiti di centrosinistra dal canto loro tenderanno a negare in un primo momento l’accaduto, dicendo che si trattava di propaganda anticomunista. L’estate del 1945 sarà tra l’altro caratterizzata dalla visita, in Urss, di una delegazione della Cgil su invito di alcuni sindacalisti sovietici. Su incarico di Togliatti e con un preciso accordo col governo la delegazione si occuperà anche della questione dei prigionieri italiani.

L’Archivio storico Cgil nazionale conserva nello specifico corrispondenza con il ministero dell’interno, elenchi manoscritti e dattiloscritti dei prigionieri dei campi 58/4 e 58/6, disegni e fotografie sulla vita in prigionia e sulla disfatta dell’Armir consegnati a Di Vittorio da Robotti. Particolarmente interessanti risultano essere le lettere che i parenti dei dispersi, saputo del viaggio, scrivono alla Cgil e nello specifico a Di Vittorio, capo delegazione, per avere notizie. “Liberaci da questa tormentosa angoscia” - gli scrivono. “Segretario Di Vittorio, si occupi della sorte del mio caro”. E Di Vittorio mantiene la parola data - come sempre - tornando in Italia con le firme di ciascun milite ritrovato, aggiungendo l’appunto “fatto” vergato a mano accanto a ogni nominativo del quale era stata informata la famiglia. Perché Di Vittorio era anche - forse soprattutto - questo. Un uomo, prima che un politico o un sindacalista, che ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, quando può interviene, ma soprattutto risponde, a tutti.

Ricordava Anita Contini nelle proprie memorie: “Ogni giorno giungeva a Di Vittorio una quantità immensa di lettere, da ogni parte d’Italia, quali scritte a macchina e quali con la grafia incerta del semianalfabeta, quali su ottima carta da lettera, quali su poveri fogli di quaderno. Una mole immensa, di fronte alla quale confesso di essermi sentita, talvolta, spaventata. Si rivolgevano a lui per i motivi più vari: egli appariva evidentemente, agli occhi di centinaia, di migliaia di bisognosi come capace di sanare i torti, di fare giustizia, di portare consolazione. Mancavano i mezzi per far studiare un figlio? Si scriveva a Di Vittorio con fiducia: non era lui che aveva detto e scritto tante volte che tutti i ragazzi italiani dovevano poter studiare? Un paralitico chiedeva una carrozzella per poter uscire qualche volta di casa. Dei genitori chiedevano a lui un aiuto 'per sposare i figli' che non possedevano nulla. Una famiglia minacciata di sfratto si rivolgeva a lui e così l’infortunato sul lavoro o il mutilato di guerra. Accadde più di una volta che si rivolgessero a lui marito e moglie, perché egli dicesse la parola che poteva rimetterli d’accordo, e salvare l’unita della famiglia. Di Vittorio pretendeva che si rispondesse con grande attenzione a tutti. Guai se una sola lettera rimaneva inevasa! Egli ripeteva 'Chi ci scrive, ha fiducia in noi: non dobbiamo deluderli. Dobbiamo fare il possibile per accontentarli'. E noi ci occupavamo con attenzione estrema di ogni richiesta, di ogni pratica, dietro le quali egli ci aveva insegnato a vedere il caso umano, a immaginare la sofferenza e la pena di chi scriveva".