Ha fatto notizia, e non solo negli Stati Uniti, l’aumento dei salari minimi annunciato da Wal-Mart. Il gigante Usa della distribuzione con la faccia da cattivo, da sempre (e tuttora) contestato per il trattamento dei suoi lavoratori, porterà la paga minima a 9 dollari l’ora ad aprile (1,75 dollari in più rispetto al salario minimo in vigore a livello federale). Dal febbraio 2016 la soglia salirà a 10 dollari. È vero che i sindacati chiedevano 15 dollari, ma si tratta comunque di una decisione importante: circa un miliardo di dollari investiti nelle “paghe da fame” (per citare un classico testo di Barbara Ehrenreich) di oltre mezzo milione tra i suoi lavoratori a tempo pieno e part time.

Tra le tante cause della decisione, spiegata dal Ceo di Wal-Mart Doug McMillion in un video su YouTube, possiamo escludere una mossa di comunicazione volta a migliorare la pessima immagine pubblica di Wal-Mart. C’è invece che l’economia americana è in netta ripresa, che il prezzo del petrolio è crollato, e che il livello salariale minimo della forza lavoro Usa è diventato questione prioritaria nelle grandi aziende almeno per due motivi: evitare emorragie di addetti (se il mercato del lavoro riparte, si può sempre trovare un posto migliore) e rilanciare i consumi.

“Stiamo preparando cambiamenti totali del nostro modello, dalle assunzioni all’aggiornamento fino alla struttura dei negozi”, ha detto McMillion nel video caricato su YouTube, come rileva anche La Stampa. “Questi cambiamenti daranno ai nostri dipendenti l’opportunità di aumentare i loro stipendi”, aggiunge McMillion. Ma sono alle viste anche miglioramenti nell’orario di lavoro e nella possibilità di ottenere permessi.

È davvero una svolta, visto che le paghe dei lavoratori Wal-Mart sono tra le più basse degli Usa da oltre 50 anni. Fino a dieci anni fa, almeno due terzi dei lavoratori non potevano permettersi di accedere al fondo sanitario della società. La Corte di giustizia della California portò l’azienda sul banco degli imputati con l’accusa di mancato rispetto delle politiche di pari opportunità. Il consiglio nazionale sulle relazioni industriali (National Labor Relations Board – Nlrb) ha accusato Wal-Mart di aver violato i diritti dei lavoratori in 25 Stati. Anche per queste ragioni – da sempre denunciate dall’Ufcw (United Food and Commercial Workers), la federazione dei lavoratori del commercio dell’Afl-Cio – il turnover della manodopera Wal-Mart è arrivato a oltrepassare, negli anni, il 40%.

Con l’aumento della paga minima Wal-Mart supera anche il governo Obama, ossia smette di aspettarlo. L’amministrazione democratica ha infatti presentato da mesi una proposta di legge per elevare il salario minimo, a livello federale, da 7,25 a 10,10 dollari. Ma il progetto è ancora in stallo al Congresso.

Un grafico dal sito della Casa Bianca spiega gli effetti positivi dell'aumento salariale, Stato per Stato:



Epperò dall’inizio dell’anno già 20 Stati nordamericani sono intervenuti per innalzare il minimum wage a circa tre milioni di lavoratori. Lo Stato di New York, ad esempio, ha deliberato un aumento da 8 a 8,75 dollari, lo scorso 31 dicembre 2014. La misura dovrebbe riguardare circa 437mila lavoratori. Nel Massachusetts si è passati da 8 a 9 dollari l’ora. In Florida da 7,93 a 8,05. Ma, come racconta questo reportage del Washington Post, non basta. Restano paghe da fame. Redditi che non consentono una vita dignitosa a centinaia di migliaia di persone prive di quel livello minimo di istruzione e formazione che le protegga dal ricatto di un mercato del lavoro spietato con la sua base produttiva. In tempi di crisi, sono i licenziabili: le vittime dell’economia. In tempi di (seppur moderata) ripresa, si diffonde al contrario la linea bipartisan, condivisa tanto a destra quanto a sinistra, che il salario di questi lavoratori debba “aumentare leggermente”, se non altro per non uccidere i consumi. Lo spiega bene un articolo pubblicato da The Nation.

E lo spiega anche l’editorialista del New York Times David Leonhardt, nella rubrica The Upshot: “La risposta più semplice è che il mondo per i datori di lavoro è molto cambiato, con un tasso di disoccupazione del 5,7 per cento (il livello di gennaio), rispetto a cinque anni fa, quando la disoccupazione era al 9,8 per cento”. In buona sostanza, se non ricevono aumenti o altri benefits, i lavoratori rischiano di cambiare casacca. “La questione è – si chiede Leonhardt - se i miglioramenti salariali saranno abbastanza forti da creare un circolo virtuoso in cui l'aumento di retribuzione, per quei lavoratori che sono al livello più basso di reddito, e che sono più propensi a spendere soldi e a farli circolare nel sistema economico, stimolerà maggiori investimenti e assunzioni”. In realtà è solo una delle questioni. La questione principale resta la battaglia per la giusta paga, tutt’altro che vinta dopo gli aumenti in casa Wal-Mart.