Voucher: parola di derivazione inglese, con cui ormai – consapevoli della scarsa propensione degli italiani alla conoscenza degli idiomi stranieri, ma al contempo facili vittime della fascinazione nei confronti di fonemi diversi –, ci siamo abituati a convivere, nella consapevolezza però che quando si deve nascondere una fregatura o imbellettare qualcosa le si appiccica un bel nomignolo straniero. Ecco: “voucher” in inglese significa “buono”, ma non in quanto aggettivo – magari –, ma in qualità di sostantivo, come “tagliando”, “attestazione”, persino “ricevuta”.

Da noi li hanno introdotti prima nel sistema dei servizi ai cittadini, riducendo cioè i servizi pubblici – assistenza, asili nido, sanità ecc – in cambio di buoni-voucher spendibili presso strutture private. Perché? Ufficialmente, in nome della libertà di scelta del cittadino, ufficiosamente perché le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori nel privato sono solitamente più bassi e questo consente risparmi al pubblico e profitti ai privati, che – tra l’altro – si rivelano solitamente ottimi finanziatori di campagne elettorali. Ma questa è un’altra storia.

Dicevamo dei voucher. Da qualche tempo – Marta Fana ci ricorda, nell’articolo che Rassegna pubblica, che era il 2003 e il media fu la legge impropriamente dedicata al giuslavorista Marco Biagi – i voucher vengono utilizzati con l’obiettivo di favorire la regolarizzazione fiscale-contributiva per i cosiddetti “lavoretti”, la tata, la badante occasionale, il giardiniere... Insomma, ben lungi dal favorire l’emersione, e grazie anche a leggi che hanno via via innalzato la soglia del ricorso a questo strumento, da ultimo anche il #JobsAct – un’altra locuzione straniera: deve essere proprio un vizio –, hanno contribuito a camuffare il lavoro irregolare.

Ecco così storie di lavoratori di bar e pizzerie, di piccole aziende artigiane o del settore agricolo – ce ne sono ormai in ogni settore –, che invece di venire assunti, magari con contratti a tempo, a progetto, a singhiozzo, a tutele crescenti (ce ne sono oltre 40 di forme atipiche), si sono visti staccare un bel voucher senza diritti e, spesso, per orari-lavoro ben diversi da quelli regolarizzati. In pratica, la massima liberalizzazione del mercato del lavoro, “oggi ci sei, domani no” (tanto che nel 2015 ne sono stati venduti più di 71 milioni, per un’età media degli interessati che si è attestata attorno ai 37 anni). Ragazzi, un consiglio: la prossima volta che vi propongono qualcosa con un nome straniero, diffidate.