Esiste un processo di “europeizzazione orizzontale delle relazioni industriali”, cioè una loro evoluzione verso una maggiore omogeneità a livello europeo? È l’interrogativo principale da cui prende le mosse un recente lavoro di un gruppo di ricercatori dell’Università di Linz, che lo affronta prendendo in esame le recenti vicende della contrattazione collettiva del settore metalmeccanico di Germania, Italia e Austria. Ed è anche lo spunto di partenza per l’incontro seminariale che si svolgerà oggi, 20 giugno, a Bologna per iniziativa della Fondazione Claudio Sabattini, con la partecipazione di uno degli autori della ricerca, Klaus Neundlinger.

Non esiste, sostiene la ricerca, solo la conflittualità “diretta” tra le specifiche rappresentanze nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’esercizio della contrattazione collettiva. Esiste anche una conflittualità “indiretta”, che riguarda in sostanza l’assetto delle relazioni industriali e che si gioca in un campo più ampio di quello nazionale, quanto meno europeo. Il quadro è molto differenziato nei tre Paesi europei presi in esame.

Il sistema di relazioni industriali della metalmeccanica tedesca è molto solido e sperimentato e gode di una grande autonomia, intesa come capacità/possibilità di autodeterminazione delle parti, garantita anche dalla Costituzione. In questo contesto, il recente accordo del gennaio 2018 è stato da più parti considerato molto positivamente, sia per l'importante aumento salariale, sia in particolare per l'innovativa disciplina degli orari di lavoro.

E tuttavia, nonostante le positività, si manifestano anche in questa realtà alcune criticità crescenti: da un lato, il sempre più difficile equilibrio e coordinamento tra le diverse realtà regionali, che in teoria potrebbero differenziarsi dall'accordo a cui viene data valenza nazionale; dall'altro, il limitato grado di copertura della contrattazione regionale/nazionale, che riguarda ormai soltanto il 48% degli occupati nelle imprese con almeno 20 dipendenti, essendo stata recentemente negoziata la possibilità di una sorta di “uscita regolata” dal suo campo di applicazione.

Anche il sistema di relazioni austriaco è, come quello tedesco, molto solido e relativamente autonomo da condizionamenti esterni. Al contrario di quello della vicina Germania, tuttavia, il suo punto di forza maggiore è rappresentato proprio dal grado di copertura che, grazie all'obbligo di legge, esistente per le imprese, di aderire alla competente Chamber of Economy che si occupa dei rinnovi contrattuali, raggiunge livelli molto vicini al 100%. Si tratta di una legge che però potrebbe essere messa in discussione dal nuovo governo di centro-destra.

Infine l’Italia: il nostro sistema di relazioni si distanzia significativamente dagli altri due. In questo caso, l'autonomia delle parti è stata fortemente condizionata da alcuni interventi “esterni”, tra i quali almeno due si distinguono per il loro elevato valore anche simbolico: l'articolo 8 della legge 148/2011, che consente a livello aziendale un'ampia derogabilità di leggi e contratti nazionali, e – nell'agosto dello stesso 2011 – la famigerata lettera “segreta” della Bce che raccomandava all'Italia alcuni provvedimenti, tra i quali anche lo spostamento dell'asse centrale della contrattazione al livello aziendale.

Ma sulle difficoltà di tenuta del sistema di relazioni italiane hanno fortemente influito anche una lunga stagione di accordi separati, nonché l'episodio chiave della fuoriuscita della principale azienda automobilistica italiana dall'associazione delle imprese metalmeccaniche e, quindi, anche dal campo di applicazione del contratto collettivo nazionale. L'ultimo rinnovo unitariamente raggiunto nel 2016 a livello nazionale ha contribuito, al di là del merito delle mediazioni raggiunte sui singoli capitoli, a ridare credibilità e respiro a un sistema di relazioni industriali che rimane comunque in una posizione di molta maggiore debolezza rispetto a quelli degli altri due Paesi presi in esame.

Mettere a confronto le diverse realtà citate e mettere in particolare evidenza il loro maggiore o minore grado di relativa autonomia rispetto al contesto nazionale ed europeo, finisce con il riproporre la contraddizione di fondo tra un mercato europeo che consente la libera circolazione di capitali, beni, servizi e lavoratori e sistemi di relazioni industriali fortemente chiusi all'interno dei confini nazionali. Contraddizione che non è lenita, ma anzi accentuata dalla tendenza delle più grandi imprese multinazionali a esportare il loro specifico modello di relazioni industriali anche al di fuori dai confini nazionali e persino a cercare di riproporlo nelle aziende che si collocano lungo le catene produttive o di servizio che esse controllano.

È evidente che il crescere delle differenze nei sistemi di relazioni industriali nel contesto di un'economia aperta crea una situazione più favorevole per le imprese, le cui associazioni infatti restano mediamente ostili a qualsiasi forma di contrattazione sovranazionale. Ma è altrettanto evidente che dal lato sindacale diventa sempre più importante costruire quanto meno modalità più strette di coordinamento della negoziazione, come da tempo viene evocato senza apprezzabili risultati. Altrimenti anche i modelli nazionali più solidi e apparentemente autonomi da influenze “esterne” finiranno inevitabilmente con l'essere messi in discussione.

Giuliano Guietti è presidente dell’Ires Emilia Romagna