Lo sport nella percezione diffusa può essere tante cose. Spesso lo si riconduce e lo si descrive come passione, competizione, benessere fisico, divertimento, disciplina, educazione, ma molto raramente viene considerato un lavoro. È uno dei temi al centro del congresso Nidil in corso a Napoli, durante il quale è stato presentato il primo libro bianco su “Lo sport come lavoro”, frutto dell’impegno congiunto delle strutture sindacali e dell’Istituto di ricerche SL&A turismo e territorio. Oltre ai dati più aggiornati su un settore che conta oltre un milione di “addetti” di cui meno del 10% contrattualizzati come lavoratori, il dossier raccoglie i risultati del questionario “Per te lo sport è un lavoro?” lanciato lo scorso gennaio, i cui risultati hanno confermato appieno le suggestioni già emerse dalle fasi di analisi precedenti sui dati desk, relative alla invisibilità e alla precarietà dei lavoratori dello sport, un settore importantissimo dal punto di vista sociale, economico, occupazionale.

Come ha spiegato Stefano Landi, curatore dell’indagine per conto dell’istituto di ricerche SL&A, si tratta di un comparto composto da circa 70 mila nuclei associativi e quasi un milione di operatori. Un mondo complesso e ampio, spesso non chiaramente definito nei suoi confini, che coinvolge trasversalmente tutto il Paese, dal Nord al Sud. Un esercito di lavoratori che si occupano di sport, non solo per passione e volontariato: oltre il 72% degli intervistati afferma che lo sport è l’unico lavoro nel quale sono occupati. Solo l’11% di questi ha affermato di avere un contratto a tempo indeterminato: è il contratto di collaborazione a farla da padrone con oltre l’86%. Tra coloro che non hanno un contratto (36,9%), il 14% circa ha dichiarato di non ricevere alcuno stipendio, rimborso o remunerazione, mentre oltre il 60% riceve rimborsi spese, con punte di oltre il 70% nel Sud. Il 43,1% degli occupati che hanno risposto al questionario guadagna fino a 6 mila euro l’anno, il 40% da 6 a 12 mila, il 12,4% fino a 18 mila, il 4,5 più di 18 mila, ma oltre alla questione della remunerazione i lavoratori si sono dichiarati insoddisfatti per lo stato di instabilità, percepito sia dal punto di vista pensionistico che da quello delle tutele in generale.

Fabio Appetiti, dell’Associazione italiana calciatori che rappresenta 5 mila professionisti e un milione di tesserati dilettanti, ha sottolineato come – tolto quel 3% di top player – da un punto di vista di diritti e tutele si tratti di un mondo dove non sono garantiti quei diritti fondamentali che invece sono assicurati ai lavoratori in tutti gli altri settori. “Ma attenzione – ha commentato Silvia Simoncini di Nidil –, in questo contesto l’assenza di previdenza e tutele non è lavoro nero, ma è consentito dalla legge”. “L’associazionismo sportivo, che ha una fondamentale e indiscussa funzione sociale, chiede molto in termini di sgravi fiscali, ma bisogna lavorare un po’ anche sulla restituzione di diritti”, ha quindi aggiunto Appetiti evidenziando che, addirittura, oggi in Italia le calciatrici, così come tutte le atlete di tutti gli sport, non possono essere considerate professioniste. Persino la nazionale azzurra che è riuscita a partecipare ai mondiali, al contrario dei colleghi uomini (professionisti) che invece non ce l’hanno fatta. E poi c'è il grande problema del futuro pensionistico: i professionisti vanno in pensione con 20 anni di contributi, ragazzi che lavorano come atleti nel dilettantismo per 15, 20 anni, alla fine si trovano senza contributi. Senza contare tutti i fisioterapisti, i preparatori atletici”.

“Questa ricerca – hanno concluso Simoncini e Scurpa (Slc Cgil) –, insieme con altre iniziative messe in campo soprattutto negli ultimi due anni, rappresenta per noi il punto di partenza di un’azione tesa non solo a individuare, per mezzo della contrattazione collettiva, le possibili forme di tutela, ma anche a produrre un sostanziale cambiamento della normativa che regola questo settore”.

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