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In Europa compriamo mediamente tre paia di scarpe all’anno, negli Stati Uniti si arriva fino a sette. Ma delle nostre scarpe sappiamo davvero poco. Soprattutto non sappiamo cosa si nasconde dietro questi prodotti: fabbriche malsane e sfruttamento al limite dello schiavismo. A squarciare il velo di silenzio sulle condizioni di lavoro nelle aziende calzaturiere di tante parti del mondo è “Change your shoes (cambiatevi le scarpe)”, la nuova campagna lanciata in luglio da “Abiti puliti” (sezione italiana della Clean Clothes Campaign), il progetto di collaborazione di sindacati e organizzazioni non governative per il miglioramento della salute e sicurezza nel settore abbigliamento.
“Le calzature sono un prodotto che indossiamo tutti, e che contiene un alto tasso di ingiustizia sociale e ambientale” dice la portavoce della campagna Deborah Lucchetti, in un’intervista realizzata da RadioArticolo1. Sotto i riflettori di “Change your shoes” sono le scarpe in pelle realizzate prevalentemente in Asia, in primis in Cina: “Le condizioni sociali sono molto difficili, come spesso accade in questi settori di produzione di massa ad alta intensità di lavoro. Parliamo di lavoro anche schiavistico, spesso a domicilio, di fabbriche del tutto insalubri. Di concerie dove si trattano pellami con prodotti chimici pericolosi, ad esempio il cromo, per la salute dei lavoratori e dei consumatori”.
Lucchetti pone l’accento anche sulle tragedie che, nel mondo, hanno visto decine (se non centinaia) di lavoratori morire sotto il crollo della propria fabbrica. “È successo in Bangladesh, in Pakistan, in Cina, ma anche in Italia, come a Prato. È un settore strutturalmente malsano, in cui si lavora in condizioni pietose. E si lavora in ambienti costruiti senza rispettare i livelli minimi di sicurezza: questo accade per la continua compressione dei costi, ma anche per l’assenza totale di controlli da parte dei governi nazionali e dei mercati internazionali”.
Qualche passo avanti però si registra. Come la vittoria che la campagna “Abiti puliti” ha ottenuto per quanto riguarda le vittime del Rana Plaza, il complesso di otto piani di fabbriche tessili crollato in Bangladesh nell’aprile 2013, con il triste bilancio di 1.129 vittime e quasi 3 mila feriti. “Una vittoria amara, che ha almeno ottenuto di far pagare ai grandi marchi coinvolti una parte del risarcimento spettante alle vittime. Ma importante, perché stabilisce un precedente in materia” spiega Lucchetti. “Un passo avanti – conclude la portavoce – però non sufficiente. Occorre un cambio di passo, decretare che la vita di un lavoratore in Asia vale quanto quella di un lavoratore in un qualsiasi altro paese del mondo. Queste tragedie vanno combattute alla radice mediante politiche aziendali specifiche, adottando misure di prevenzione netta dei problemi e degli effetti negativi derivanti dalle produzioni in campo ambientale e sociale”.