Il quorum non è stato raggiunto. Questo è il dato politico, nudo e implacabile. Un esito che non consente interpretazioni consolatorie né scorciatoie retoriche. Lo ha riconosciuto limpidamente Maurizio Landini nella conferenza stampa post voto. Ci sarà tempo per le analisi approfondite, per visionare i grafici, per interpretare i flussi, per soppesare le cifre. Come è un dato altrettanto inoppugnabile che oltre quattordici milioni di persone abbiano deciso di usare una matita e tracciare un segno sfidando l’afa climatica e la cappa istituzionale.

Eppure, fermarsi al solo responso numerico significherebbe abdicare alla complessità del reale. Perché la verità di un risultato non esaurisce mai il senso di ciò che lo ha generato. Una sconfitta può essere un punto fermo solo per chi la guarda con lo sguardo corto dell’aritmetica. Per chi invece cerca le crepe, le tensioni, le domande rimaste aperte, può diventare una leva. Un’occasione per spostare il baricentro.

Una battaglia necessaria

Diciamolo subito: è stata una battaglia giusta, anzi necessaria. Non una battaglia di retroguardia, ma un atto di resistenza civile e morale, maturato controcorrente, nel cuore di un’epoca che sembra aver smarrito il senso stesso della partecipazione collettiva. Un gesto politico nel significato più alto del termine: non schiacciato sull’opportunità elettorale, ma nutrito dal rifiuto dell’inerzia istituzionale, dall’indignazione verso il cinismo strutturale della narrazione dominante, che riduce il lavoro a un puro fattore di produzione, una variabile da comprimere, un costo da ridurre.

È stato un atto controcorrente anche rispetto a quella forma pervasiva e corrosiva di rassegnazione che si insinua nel linguaggio quotidiano e si nutre di frasi come “tanto non serve a niente”, “tanto non cambia nulla”. Contro questo torpore diffuso, questa anestesia del possibile, la battaglia referendaria ha riacceso una luce dimenticata. Ha risvegliato la memoria di un’idea di lavoro che non coincide con la sola fatica, con la precarietà normalizzata, con il ricatto sottile tra diritto e concessione.

In questa sfida è riemersa l’idea che il lavoro non sia una merce svalutabile né un destino da subire, ma l’architrave della dignità personale, la misura del tempo ritrovato, la condizione per trasformare l’esistenza da sopravvivenza a progetto. Lavorare non è solo produrre: è partecipare, costruire senso, radicarsi nel mondo. È avere voce, spazio, futuro. E quando questa idea si afferma, anche nel silenzio delle urne o nel gelo delle statistiche, accade qualcosa che va oltre la conta dei voti: si afferma una possibilità. Un’ostinazione necessaria. Un’utopia concreta.

L’astensione del potere

Le cause dell’insuccesso formale del referendum sono molteplici, intrecciate tra la memoria storica e le responsabilità recenti. Alcune affondano nella storia di una democrazia che ha progressivamente svuotato gli strumenti di partecipazione, relegando il cittadino a spettatore passivo, talvolta ornamentale, delle decisioni politiche. La stagione dei grandi referendum popolari – quelli che hanno inciso davvero sull’ordinamento e sull’immaginario collettivo – sembra lontana anni luce. Non solo per ragioni anagrafiche, ma per un mutamento profondo del contesto culturale in cui si collocano.

Viviamo in un tempo segnato dall’individualismo competitivo, dalla frammentazione sociale, dalla sacralizzazione dell’efficienza. In questo scenario, la partecipazione diretta è percepita come corpo estraneo, tollerata solo quando inoffensiva. La cittadinanza è ridotta a consumo, la sovranità a formalità, la politica a tecnica di gestione. Invece di promuovere l’impegno attivo, si è diffusa una sistematica diseducazione alla responsabilità collettiva. Non è un accidente: è il risultato di precise scelte politiche, legislative e mediatiche.

A tutto questo si è aggiunta, negli ultimi decenni, una crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, alimentata da promesse disattese, scandali ricorrenti e una comunicazione politica sempre più tossica e disintermediata. Il referendum, in teoria strumento nobile di sovranità popolare, è stato spesso utilizzato in modo strumentale o plebiscitario, snaturandone il senso originario e contribuendo ad accrescerne la percezione di inutilità.

In un clima dominato dall’algoritmo e dall’estemporaneità del dibattito pubblico, le questioni complesse vengono derubricate a rumore di fondo e il tempo lungo del confronto viene sacrificato sull’altare dell’immediatezza. Così, anche quando il tema è decisivo – come il lavoro, la dignità, i diritti – l’attenzione si disperde, confusa da una giungla di messaggi contraddittori. La democrazia, svuotata dei suoi momenti vitali di scelta consapevole, si riduce a rituale stanco o a rassegnata delega.

Sabotaggio a reti unificate

A questo quadro strutturale si sommano responsabilità più prossime e gravi. L’assenza di un’informazione libera, pluralista e capillare ha pesato come un macigno. In un Paese dominato dalla cronaca spettacolarizzata e dai leader autoreferenziali, i temi referendari sono stati oscurati o relegati ai margini. Il silenzio non è stato neutro: è stato complice. Le istituzioni, a partire da quelle cui spetta il compito costituzionale di garantire accesso e comprensione, hanno scelto l’inerzia. Hanno abdicato al ruolo di garanti della democrazia. È stato un boicottaggio silenzioso, ma sistematico. Un sabotaggio per omissione, mascherato da imparzialità.

In questo contesto si è consolidata una prassi opaca ma funzionale: l’astensione come strumento del potere. Non più fenomeno da contrastare, ma leva da utilizzare. Chi governa ha capito che ignorare il conflitto è più comodo che affrontarlo, che è più semplice lasciar morire le domande scomode nel silenzio anziché rispondere nel merito. Così il referendum viene lasciato morire nel deserto dell’apatia, dove ogni spinta trasformativa viene neutralizzata non dal confronto, ma dall’indifferenza istituzionale.

Eppure, qualcosa è sfuggito al controllo. Perché nonostante tutto – l’oscuramento, il disinteresse, l’assenza di dibattito – una partecipazione c’è stata. Minoritaria sì, ma reale, diffusa, consapevole. Ha parlato con voce ostinata e nitida. Ha detto che c’è un pezzo di Paese che non si arrende, che non delega, che non tace. Un Paese che crede ancora che decidere insieme sia meglio che subire da soli. E che la democrazia, per vivere, ha bisogno di essere praticata. Anche quando perde. Soprattutto quando perde.

Carne, voce, fatica

Migliaia di donne e uomini, in queste settimane, hanno portato la Costituzione per le strade, nei quartieri, tra le persone. Sindacalisti, funzionari, delegati, volontari: con una generosità testarda e un’umiltà refrattaria ai riflettori, hanno tappezzato il Paese non solo di volantini, ma di sorrisi, ascolto, presenza. Hanno aperto dialoghi, raccolto dubbi, acceso confronti. Hanno ascoltato più di quanto abbiano parlato.

Sono stati presidio vivo nei territori dimenticati. Hanno portato luce dove regna il sospetto, calore dove prevale l’isolamento. Con mani nude e volti scoperti, hanno piegato la schiena sotto la fatica ma tenuto alta la testa della dignità. Tutto ciò è stato possibile perché, durante questa esaltante campagna, la Cgil ha saputo ritrovare la sua natura più autentica di sindacato di strada. Non relegato solo ai tavoli istituzionali, ma presente nei mercati rionali, nei cantieri, nei portoni delle case di periferia, nei cortili delle scuole, nei turni di notte.

Questa è la sua anima: popolare, conflittuale, vicina. Una militanza che non si annuncia a gran voce, ma si misura in chilometri, in mani tese, in sguardi che riconoscono la fatica. Un sindacato che accompagna, non si limita a rappresentare. Che non reclama visibilità, ma costruisce appartenenza. Che tesse legami, ricuce strappi, genera senso.

Autocritica e passione, per ripartire

Si poteva fare di più? Senza dubbio. Si può sempre fare di più. Bussare a più porte, presidiare più strade, parlare linguaggi più inclusivi, coinvolgere soggetti diversi. Costruire alleanze più ampie, elaborare strumenti comunicativi più incisivi, uscire dai circuiti già convinti per contaminarsi con nuove esperienze. E anche sul piano simbolico: scegliere parole che accendano immaginari, che colleghino il concreto del lavoro all’orizzonte di una società più giusta.

Ma occorre chiarezza. L’errore non è stato nell’impegno di chi ha dato tutto, ma nella cornice istituzionale e culturale che ha reso quell’impegno faticoso. Non si può rimproverare a chi ha agito con dedizione la responsabilità di un sistema che da anni marginalizza la partecipazione e considera la mobilitazione popolare un fastidio. Il valore profondo di un’azione collettiva non si misura solo nei numeri, ma nella dignità del cammino e nella capacità di piantare semi, anche se non germogliano subito.

Riconoscere questo non significa sottrarsi all’autocritica, ma orientarla nel punto giusto: verso l’analisi delle condizioni strutturali che rendono ogni iniziativa dal basso una corsa ad ostacoli, spesso controvento. In questo quadro, ogni mobilitazione che nasce fuori dai radar del potere dominante è costretta a inventarsi forme nuove, a reinventare continuamente il proprio linguaggio, a resistere all’invisibilità sistemica cui viene condannata. Eppure, proprio questa ostinazione nel rendersi visibili, nell’insistere, nel tentare nonostante tutto, è ciò che conferisce valore politico all’azione collettiva. Perché sfidare l’indifferenza e il silenzio è già, in sé, un atto di rottura.

Il referendum come processo

Un referendum non è solo un voto, una croce su una scheda, un fine settimana passato in cabina. È un processo culturale, pedagogico, politico. Un tempo lento in cui la democrazia si fa esperienza concreta, si incarna nei gesti, nelle parole, nelle relazioni. È un laboratorio diffuso dove le persone tornano a interrogarsi, confrontarsi, scegliere. E, così facendo, riscoprono di essere cittadini, non utenti. Soggetti attivi di una Repubblica fondata sul lavoro. In tanti si sono riuniti nei vari comitati germogliati un po’ ovunque in giro per l’Italia: un bene prezioso da custodire gelosamente.

In questo processo si sono riaperte brecce nel muro dell’indifferenza. Sono emerse domande rimosse, desideri di giustizia sociale repressi, parole che sembravano espulse dal dibattito pubblico: conflitto, partecipazione, dignità, giustizia. Il conflitto, innanzitutto, non come disordine da temere ma come motore del cambiamento. Come dinamica viva e necessaria della democrazia. In un tempo che reprime ogni dissenso, rivendicare il conflitto come spazio legittimo è già un atto radicale.

La partecipazione, poi. Non come liturgia vuota, ma come gesto di fiducia. Partecipare oggi significa opporsi alla solitudine sistemica, al cinismo, alla rassegnazione. È rompere l’inerzia, riappropriarsi del diritto – e del dovere – di contare. È quasi un atto rivoluzionario. Infine, la giustizia: non come astrazione, ma come misura concreta dei rapporti sociali. Nei contratti, nei salari, nei tempi di vita. Giustizia come riconoscimento di chi lavora, cura, lotta per essere visto.

E adesso?

Anche quando non raggiunge il quorum, il referendum riesce spesso dove la politica istituzionale fallisce. Risveglia coscienze, connette storie, genera consapevolezza. Non interpella solo gli elettori, ma li coinvolge come cittadini. E per questo, anche senza vittoria formale, lascia un’eredità viva. Una memoria attiva da cui ripartire.

Milioni di persone hanno scelto di esserci. Hanno firmato, discusso, votato. Non si sono lasciate paralizzare dal disincanto. Hanno riaffermato, con il gesto semplice e potente del voto, che la democrazia non è un rituale vuoto, ma una pratica viva. A loro – e a chi ne ha reso possibile il risveglio civico – dobbiamo più di un ringraziamento. Dobbiamo l’impegno di costruire insieme un nuovo protagonismo politico, sindacale, culturale. Perché il vero fallimento non è perdere, ma abbandonare chi ha avuto il coraggio di lottare.

C’è ancora molto da fare: organizzare, formare, ricostruire fiducia. Ma il seme è stato gettato. E già germoglia, nelle coscienze, nei legami, nelle lotte che verranno. Nessun quorum, per quanto mancato, potrà cancellare la forza di chi, anche da solo, ha deciso di alzare la testa.