Quale può essere il significato di uno spazio non neutro, ovvero situato in una prospettiva di genere? Quali sono gli spazi segnati dalla presenza femminile, se solo di recente le donne hanno cominciato a produrre spazi come progettiste, architette o ingegnere, paesaggiste o urbaniste? L’istruzione superiore e universitaria si è aperta per loro solo nel corso dei primi decenni del Novecento con la prima ingegnera, Emma Strada laureata a Torino nel 1908 e la prima architetta, Elena Luzzatto, laureata a Roma nel 1925. 

Da sempre, tuttavia, le donne hanno dato vita a tante specie di spazi: vissuti o simbolici, attraversati e animati, programmati e anche occupati. Dalla villa che Livia Drusilla fece costruire per sé lungo la via Flaminia alla Basilica di San Pietro in Vincoli, di cui l’imperatrice Eudossia fu committente, fino all’occupazione di Palazzo Nardini in via del Governo Vecchio da parte dei movimenti femministi romani degli anni Settanta. 

Sono ormai molte le studiose che si stanno dedicando ai temi della produzione dello spazio fisico con l’ottica di genere. Una letteratura abbastanza vasta, dapprima sviluppata in ambito statunitense e anglosassone, più di recente ha conosciuto approfondimenti anche in Europa con punti di vista originali, sia da parte di storiche e progettiste, sia da parte di militanti. Negli ultimi anni l’ottica di genere è un’attenzione condivisa anche da alcune amministrazioni pubbliche di livello locale. Il comune di Vienna e quello di Stoccolma, considerati degli apripista, sono stati seguiti da numerosi altri, non solograndi realtà metropolitane, ma anche piccoli centri. 

Dal mio punto di vista, quello di una architetta che insegna urbanistica e progettazione urbana, essere una donna che progetta significa aver incamerato il pensiero della differenza, la consapevolezza che le donne hanno subito discriminazioni e sono state messe in ombra per secoli.  Essere una donna progettista significa, dunque, essere attenta alle diversità e all’inclusione, avere un atteggiamento empatico di cura nei confronti del territorio e di chi lo abita, privilegiare le relazioni orizzontali e le reti, prendere atto che il territorio è una risorsa limitata e che stiamo ormai ragionando in termini di riuso. 

Significa, quindi, dare valore all’esistente, vedere quello che abbiamo intorno, cogliere l’importanza delle esigenze locali, ma saperle riconnettere ad una visione più ampia che ha il pianeta come orizzonte. Le condizioni di partenza su cui dobbiamo basare l’approccio progettuale richiedono di scardinare le gerarchie consolidate per sviluppare la consapevolezza che le nostre città hanno bisogno di una partecipazione allargata. Questo significa farsi carico delle esigenze delle persone non come clienti in una logica di mercato, non solo come semplici utenti con un approccio passivo dall’alto verso il basso, ma soprattutto come abitanti coinvolti attivamente e protagonisti di un processo collettivo di trasformazione.

In questa direzione è fondamentale trovare convergenze tra politiche pubbliche e iniziative dal basso, per rispondere ad una crescente molteplicità di intenti e di approcci, con una visione di insieme che sappia far dialogare la piccola con la grande scala, il quotidiano con il globale, l’interesse del singolo con quelli della comunità. 

Sicuramente occorre partire da quelli che in gergo urbanistico vengono chiamati i fabbisogni primari e dunque prevedere una casa per tutti. Ma come? Gli alloggi che abitiamo rispecchiano ancora quell’ordine borghese stabilito nel corso del XIX secolo con protocolli morali e sociali che stabiliscono una rigida divisione dei ruoli maschili e femminili. Oggi, sempre più spesso, e la recente pandemia lo ha reso palese, la funzione dell’abitare si è profondamente modificata per coniugarsi con quella del lavoro e del tempo libero, in una frammistione di usi che non contempla più separazioni rigorose, ma che allarga orizzonti e pratiche.

Grazie anche all’apporto di nuove generazioni di progettiste, lo spazio della casa si sta trasformando per rispondere ad esigenze mutevoli e variabili: il desiderio di intimità di chi la abita e le richieste diversificate dei componenti, la flessibilità degli spazi e il loro essere modulabili, la possibilità di disporre di piccole “appendici” all’aperto, così come ci ha fatto rendere conto il recente, e non ancora, concluso periodo di pandemia.

L’edilizia sociale è oggi investita da una domanda in crescita, espressa da strati della popolazione sempre più ampi e differenti da quelli cui la città pubblica è stata a lungo destinata. Questa domanda sfida a ripensare i quartieri come luoghi capaci di accogliere nuovi residenti e utenti, come opportunità per improntare il progetto di riqualificazione di alloggi e spazi collettivi a nuovi requisiti di flessibilità, articolazione tipologica e morfologica, capaci di rispondere al mutare delle forme e delle tipologie dell’abitare. 

Per garantire un’equità di genere occorre attribuire maggiori investimenti in favore della città pubblica, programmando quote in ogni area di trasformazione urbana, anche per contenere i processi di gentrificazione. Prevedere l’inserimento di utenti diversificati, per età (studenti, giovani in cerca di prima occupazione, anziani), per tipologie familiari (nuclei con bambini, famiglie monoparentali, single) consente di aprirsi ad una visione inter-generazionale  in grado di generare esperienze riconducibili a quelle della “Banca del Tempo”  e del piano degli orari, impostati anni fa a Roma da Mariella Gramaglia.

Esperienze che andrebbero riprese e attualizzate in un’ottica di condivisione tra tempi di vita e di lavoro per accompagnare la creazione di nuovi spazi di prossimità. Non solo negozi al dettaglio e ristoranti, ma soprattutto attrezzature di quartiere, conservatori di musica e case delle donne, giardini condivisi e spazi aperti vegetali, luoghi per la cultura e il tempo libero. Spazi densi di funzioni collettive, accessibili e diffusi, come le scuole aperte alle relazioni con le comunità circostanti, i cui cortili diventano verdi per contrastare l’impermeabilizzazione del suolo e le isole di calore, i cui spazi di gioco assumono una consapevolezza di genere.

Spazi che sono raccordati da infrastrutture verdi e blu con una rete che attraversi il territorio a tutte le scale, dai pocket garden fino ai grandi spazi agricoli, per collegare le attrezzature collettive alle preesistenze storico-archeologiche di cui è ricco il nostro territorio e per generare connessioni ecologiche, ambientali, sociali. 

Claudia Mattogno, docente di Urbanistica, Università La Sapienza di Roma