È sotto gli occhi di tutti che dalla crisi generata dalla pandemia si può uscire solo con un nuovo “progetto”, una rivoluzione green del Paese e del continente. Non è più accettabile continuare a utilizzare ricette economiche datate, basate su consumo e produzione insostenibili dal punto di vista sia ambientale sia sociale.

Le risorse economiche messe a disposizione dall’Europa (principalmente Next Generation Eu, bilancio europeo) in risposta alla crisi hanno un indirizzo strategico condiviso prevalente, sostenibilità ambientale e digitalizzazione, elementi che dovrebbero far ben sperare sulle future scelte del vecchio continente in un’ottica di riconversione industriale, ma non solo. Il punto è come agiranno i singoli Paesi e quale sarà il grado di indirizzo per il medio e lungo periodo dei governi nazionali e della politica.

In Italia, sino ad ora, con i vari provvedimenti economici ci si è limitati a tirare a campare, mixando la “vecchia ricetta” (sostenere le imprese e i “posti di lavoro” con finanziamenti a pioggia) e una spruzzata di programmazione su digitalizzazione e riconversione green. In un contesto in cui - sappiamo bene - i servizi pubblici essenziali sono stati ridotti al lumicino dalle politiche economiche degli ultimi 30 anni. Va detto che, con la pandemia, anche i liberisti più retrivi si stanno rendendo conto di cosa abbia comportato il taglio progressivo dello stato sociale e l’aver demandato ai privati la fornitura di servizi indispensabili. 

Non si può ragionare di economia circolare, di riduzione dell’inquinamento, di riconversione green, della tutela della salute dei lavoratori nella fase pandemica, senza guardare alla revisione di un modello sociale che deve viaggiare su cospicui investimenti in servizi pubblici essenziali (trasporto pubblico collettivo, sanità, scuola, università, ricerca, pubblica amministrazione, accesso a internet). Indispensabile quindi investire in innovazione tecnologica, formazione e alfabetizzazione digitale, in modo da rispondere alle crescenti diseguaglianze.

Il cambiamento sostenibile è determinato dalle idee e dalla programmazione, condizioni indispensabili per spendere in maniera oculata le risorse a disposizione, evitando che il relativo indebitamento divenga improduttivo e a intero carico delle future generazioni. 

La questione vera, basterebbe avere una finestra sui social, è che le persone, anche se sottoposte a un confinamento forzoso durante il lockdown, hanno sperimentato la possibile realizzazione di un sistema produttivo e organizzativo diverso. “Formalmente” meno coercitivo, che riduce lo stress e i costi della mobilità, consentendo una maggiore libertà nella gestione dei tempi di vita. Larga parte di queste persone, al di là di maggiori tutele che debbono essere contrattate, hanno visto che un altro modello è possibile e che, questo modello, riduce anche l’inquinamento urbano dei luoghi in cui vivono.

Ci troviamo a un bivio: o si prosegue (soprattutto nelle grandi città) a non mettere i lavoratori in smart working (ove possibile), così costringendo ogni persona a muoversi col mezzo privato (aumentando a dismisura l’inquinamento) per non rischiare la propria incolumità sui mezzi pubblici, oppure si avvia una revisione dei modelli produttivi e organizzativi delle imprese in sintonia con il “sistema città”.

Le mappe “economiche” di tutti i grandi centri urbani, se il lavoro da remoto proseguirà (speriamo sempre più agile e meno segregato), cambieranno. L’abitare, il consumo di beni e servizi si sposteranno nelle periferie, i mezzi di trasporto privati potranno essere sempre meno grandi e pesanti, si ridurrà così il consumo di suolo, l’inquinamento, il rumore. Questo cambiamento, però, presuppone un’analisi che deve necessariamente partire dai luoghi, dagli insediamenti produttivi e industriali, che sfrutti tutte le tecnologie a disposizione (smart city) e li renda sostenibili ambientalmente e socialmente. Occorre rifondare le città, guardando ai bisogni delle persone.

Non si sono ancora trovati tavoli istituzionali dove discutere e contrattare di queste materie. Ogni azienda è un’isola, la contrattazione si limita quindi a gestire lo specifico, ma senza una visione d’insieme che parli al territorio ed all’intero sistema-paese. Non è così difficile immaginare che un processo virtuoso potrà esserci se le istituzioni decideranno di realizzare un percorso di relazione e condivisione con i soggetti collettivi e con i corpi intermedi, per costruire assieme un progetto sinergico.

Bisogna reinventare il ruolo della contrattazione sindacale, perché non la si viva più solo nel chiuso delle grandi aziende. Il sindacato confederale è il soggetto presente sul territorio (nelle relazioni istituzionali), è presente nelle imprese pubbliche e private, per questo può e deve essere il vettore che unifica i processi di un modello produttivo e sociale eco-sostenibile, che ponga al centro il lavoro e le persone.

Alessio De Luca, Ufficio Progetto Lavoro 4.0 Cgil, coordinatore Idea Diffusa