È un efficace gioco di parole il titolo del sesto congresso nazionale Nidil Cgil, dal 14 al 16 febbraio a Modena. “Per Costituzione inflessibili” riassume i principi e le battaglie che il sindacato che rappresenta la categoria dei lavoratori atipici ha portato avanti finora e le sfide che è chiamato a raccogliere nei prossimi anni. “Una centralità della Costituzione repubblicana come Carta fondamentale dei diritti e delle libertà di ognuno – dichiara il segretario generale Andrea Borghesi -. E anche l’espressione della necessità che quei principi vengano riaffermati: il lavoro di qualità, uno dei concetti espressi dall’articolo 1 e da altri articoli, è stato solo parzialmente applicato”.

In che senso, Borghesi?
La Costituzione afferma l’idea che il lavoro costituisce un elemento fondamentale della cittadinanza. Ma a giudicare dalle condizioni in cui versa il nostro Paese, questo principio fondamentale sembra negato. Con l’approvazione della legge 300 (lo statuto dei lavoratori, ndr) si disse che la Costituzione era entrata in fabbrica. Oggi pensiamo che debba rientrare nei luoghi di lavoro da cui è uscita, perché la precarietà e la mancanza di diritti sono la negazione dei principi costituzionali. Il lavoro di qualità è un elemento di libertà delle persone, da condizioni di sfruttamento e di subordinazione, vuol dire anche potersi costruire una famiglia e un contesto di relazioni. Inoltre abbiamo voluto giocare sull’idea dei lavoratori cosiddetti flessibili, mettendola in relazione con la nostra inflessibilità nei principi.

Quindi c’entra anche il sindacato?
Sì, secondo me c’è una funzione costituzionale nel nostro lavoro, penso a quello del sindacato in generale, dei dirigenti e dei rappresentanti, quando si mettono in gioco e rivendicano i diritti e la dignità delle persone, dando valore al lavoro.

Come categoria avete tanti fronti aperti. Saranno tutti dibattuti al congresso?
Sono molte le aree oggetto di discussione congressuale, in cui sono in campo vertenze, come quella dei somministrati delle prefetture e questure che lavorano nel settore dei permessi di soggiorno: è assurdo che un servizio essenziale e necessario alla collettività, riservato a persone che arrivano nel nostro Paese in condizioni di fragilità, sia affidato a precari che peraltro non sono stati neppure rinnovati al 31 dicembre scorso. Sempre sulla somministrazione stiamo discutendo il rinnovo del contratto collettivo nazionale, che riguarda oltre 500 mila lavoratori, con importanti richieste sulla redistribuzione della ricchezza e sulla continuità occupazionale.

Tra le battaglie degli ultimi mesi c’è anche quella dei navigator. È una vicenda che considerate chiusa?
Stiamo tentando di mantenerla aperta. Si tratta di lavoratori lasciati a casa nonostante il bisogno di professionalità nelle politiche attive che c’è nel nostro Paese, con i centri per l’impiego nelle condizioni drammatiche in cui versano e con il rischio di “appaltare”, di fatto, al privato i servizi all’impiego e la formazione.

C’è poi un campo importante di azione che abbiamo aperto e che andrà approfondito, relativo al mondo dello sport e dei collaboratori sportivi che dal primo luglio entreranno finalmente in un sistema lavoristico. Rimarranno, però, per buona parte nella sfera dell’autonomia e quindi bisogna definire quali sono i parametri retributivi che dovranno essere applicati.

Il settore del lavoro informale è davvero vasto e non si limita a quello dello sport. È così?
Infatti, nell’area della cultura, dalle biblioteche ai siti museali, i confini del lavoro informale o semi-informale si stanno allargando, legato ad associazioni che rimangono nell’ombra: qui c’è un popolo di lavoratori autonomi, occasionali, scontrinisti, qui nel prossimo futuro dovremmo provare a creare una forte vertenzialità. 

A che punto è la vertenza sui rider?
Va rilanciata in assenza di un intervento normativo. Oggi tutta la partita del food delivery continua a essere regolata in gran parte dall’accordo pirata sottoscritto dall’Ugl. Va ripresa l’azione sindacale che in questi anni ci ha visti protagonisti con iniziative, campagne, sentenze.

Un altro ambito enorme, anche per il numero di lavoratori coinvolti, è quello delle partite Iva. Quali sfide sindacali vi attendono?
Abbiamo realizzato in questi anni una piattaforma e un forum con le partite Iva che provano a porre il complesso dei problemi aperti per i professionisti, dai compensi alla previdenza, dalla formazione agli ammortizzatori sociali universali. Le risposte date in questi anni solo sulle tasse appaiono essere uno scambio improprio tra vantaggio fiscale e diritti. Mentre l’indennità di disoccupazione, pur essendo un avanzamento, mostra dei limiti e l’equo compenso, per come è incardinato, taglia fuori una parte consistente di lavoratori con partita Iva.

Il sindacato sostiene che in alcuni ambiti di interesse collettivo ci dovrebbe essere un intervento pubblico. In che modo?
Nei confronti dei disoccupati e dei lavoratori in transizione tra un impiego e l’altro o da molto tempo, lo Stato dovrebbe assumersi la responsabilità di offrire un lavoro garantito, per consentire alle persone di poter fare esperienza in condizioni dignitose. È una proposta che abbiamo già avanzato, che potrebbe interessare alcuni settori che hanno bisogno di un intervento pubblico importante, come l’ambiente e la cultura, dove peraltro sopravvivono fette importanti di precariato.

È in programma un’iniziativa di confronto?
Abbiamo organizzato una tavola rotonda sul lavoro in saldo, con studiosi che illustreranno i risultati di alcune indagini sugli effetti delle riforme del mercato del lavoro attuate nell’ultimo ventennio sull’economia italiana. Le ricerche evidenziano come le riforme abbiano tradito le promesse per le quai erano state attuate, perché la quantità di lavoro è rimasta sostanzialmente invariata, ma il tradimento si è consumato soprattutto in termini di qualità e produttività.

Quindi esiste la prova che la flessibilità non è la panacea di tutti i mali?
Sì, questa tesi è stata confutata: dal 2003 in poi abbiamo assistito a una riduzione forte della quantità di salario a disposizione e contestualmente a un aumento sostanziale dei profitti. In pratica, i profitti sono stati realizzati a scapito del lavoro. Per tutta risposta il governo ha intenzione di agire in direzione diametralmente opposta, perché ritiene che il nostro mercato del lavoro abbia bisogno di ulteriori elementi di flessibilità. Un’assurdità.

Il programma del congresso, come anche quello per i prossimi anni, sembra gigantesco: con quali strumenti pensate di attuarlo?
Vogliamo continuare a puntare sul protagonismo dei lavoratori, il vero motore della nostra iniziativa. Penso alle tante rappresentanze che abbiamo costruito, specie nella somministrazione, all’elezione delle Rsu. Oggi registriamo più di 200 rappresentanze sindacali nei territori, nelle aziende e nei luoghi di lavoro, un centinaio in più rispetto a quattro anni fa.

Questo dovrà favorire sempre di più la contrattazione inclusiva, lavorare insieme ai rappresentanti delle altre categorie, per contrastare la frammentazione dei cicli produttivi attuata dalle imprese attraverso appalti e flessibilità. Il Nidil in questi anni ha fatto tante mobilitazioni e scioperi, spesso unitariamente qualche volta no, un lavoro corposo nel tentativo di rappresentare figure difficilmente rappresentabili.

Dal vostro punto di osservazione, come è cambiato il mondo del precariato e del lavoro atipico?
Le condizioni di difficoltà sono andate per certi versi peggiorando in termini di quantità di persone coinvolte e di qualità del lavoro, ma c’è anche qualche positivo elemento di novità, rappresentato da una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori. La crisi economica e sociale ha aumentato le disuguaglianze, talmente tanto che le stesse democrazie si stanno indebolendo.

Ne è la prova il disinteresse delle persone per la politica, che non si occupa più dei problemi reali, sorda e cieca nei confronti del disagio di milioni di cittadini. Non mi riferisco solo al governo in carica, ma anche ai precedenti: si continua a pensare, a torto, che la ricetta sia l’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro, quando le evidenze e gli studi ci dicono l’esatto contrario.