Il 17 febbraio 1977 (un anno terribile, con tre studenti morti - Francesco Lorusso, Giorgiana Masi e Walter Rossi - e le Brigate Rosse che sparano ai giornalisti, ferendo Indro Montanelli e uccidendo Carlo Casalegno) in una Sapienza occupata già da più di due settimane e in un clima segnato da grandi mobilitazioni studentesche Luciano Lama viene contestato all’Università di Roma. Alle 8.00 del mattino il segretario della Cgil entra nella città universitaria a piedi, seguito dal servizio d’ordine e da militanti della Camera del lavoro e della Federazione comunista della capitale.

“Come ogni giorno - raccontava Antonio Lippa, suo storico autista - lo andai a prendere alle 7 e 30 nella sua casa alla Balduina. Era tranquillo, pur consapevole dei rischi che quel comizio comportava. Quando arrivammo lì c’era già molta gente, Lama fu fatto salire sul Doge, il camion che fungeva da palco, io mi piazzai alle sue spalle”. Assiepati intorno alla facoltà di Lettere gli indiani metropolitani ballano, cantano, scandiscono slogan polemici, ripetono ossessivamente la parola “Sacrifici”. Sui muri le scritte "I Lama stanno in Tibet". Su una scala un fantoccio a grandezza naturale in polistirolo circondato da palloncini con appesi tanti grandi cuori con su scritto: "L’ama o non Lama. Non Lama nessuno".

Il segretario generale della Cgil viene accolto da slogan irridenti: “Andreotti è rosso, Fanfani lo sarà”, “Argan e Paolo VI uniti nella lotta, il Concordato non si tocca”, “Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia”, “Via, via la nuova polizia”, “Lama, frustaci”. Alle 10 in punto inizia il comizio.

“Compagne e compagni, lavoratori e studenti, io credo - dirà il segretario della Cgil - che il modo migliore per utilizzare questa occasione sia quello di ragionare e ascoltare con calma. Questa grande manifestazione di lavoratori e studenti può forse essere un poco disturbata, non può essere impedita. Io voglio dire che questa mattina ero venuto qui francamente curioso di vedere quello a cui un giornale, il solito Corriere della Sera, ci aveva preparato, parlando di carri armati che sarebbero entrati all’Università di Roma; francamente carri armati non ne ho veduti”.

Al posto di carri armati e autoblindo, il leader di Corso d’Italia vede “migliaia di lavoratori, di lavoratrici, di studenti riuniti qui per discutere di un problema vitale, non solo della gioventù italiana, ma dell’intera società del nostro Paese, ed è di questo che dobbiamo parlare qui oggi, perché questi sono i problemi reali che assillano insieme i giovani e gli adulti in Italia. Quale domani prepara questa scuola a voi compagni studenti e ai lavoratori? È questa la domanda che noi ci dobbiamo porre, e a questa domanda deve rispondere non solo questa nostra manifestazione, ma l’impegno del mondo studentesco e culturale e l’impegno di lotta delle grandi masse dei lavoratori italiani. (…) Noi non pensiamo di poter agire senza di voi e tanto meno pensiamo di poter agire contro di voi”.

“Vedete - proseguirà - noi abbiamo partecipato quando c’erano i tedeschi e i fascisti alla lotta clandestina, difendendo le macchine e le fabbriche del Nord. Sono le solite parole, dice qualcuno. No, sono parole e fatti nei quali decine e decine di uomini hanno perduto la vita. Questa è la verità. (…) Qualcuno ci accusa di voler normalizzare. Normalizzare che cosa? Noi vogliamo cambiare, trasformare, rinnovare l’università e il Paese, altro che normalizzare. (…) Dobbiamo, con la forza della democrazia e col consenso, contro i fascisti e contro la violenza, perché noi siamo dalla parte del giusto e della legge, conquistare il rinnovamento nell’università e nella società. Io voglio concludere a questo punto con un appello alle forze intellettuali e culturali perché si impegnino in questa grande impresa di rinnovamento che non è certo impresa al servizio del potere, ma è un’impresa al servizio della causa nobile e grande dei lavoratori per il cambiamento della società italiana. (…) Guardate amici e compagni, se voi disperderete le vostre forze e il vostro impegno in un atteggiamento che è di rifiuto di una politica reale di rinnovamento, le forze del lavoro, le forze del progresso non si arresterebbero”.

Forse il discorso è finito, forse no, ma continuare non è più possibile. 

Alle 10 e 30 Bruno Vettraino - segretario della Camera del lavoro di Roma che avrebbe garantito a Lama l’assenza di pericoli e contro il quale molte dita saranno puntate - dichiara sciolta la manifestazione e il segretario generale della Cgil viene portato via dall’Università. Il palco è capovolto, demolito. Il bilancio - parziale - sarà di un centinaio di feriti, medicati in facoltà, al Policlinico, nei locali della Federazione romana del Pci di via dei Frentani.

“Sono stato l’ultimo a scendere prima che il palco venisse distrutto - racconterà Vettraino - Era un vecchio scassone. Dal Dopoguerra in poi, però, non c’era stata manifestazione importante, da Porta San Paolo a San Giovanni, in cui il Dodge rosso non fosse in testa al corteo. Difficile spiegare a chi non è stato militante del Pci in quegli anni. Ma, alla fine degli scontri, più che le teste rotte, quello che sembrava bruciare di più era proprio la perdita di quella bandiera”.

“Basta, basta, non ci si picchia fra compagni”, afferma qualcuno piangendo.

“Per me fu un trauma - racconterà anni dopo Alberto Asor Rosa - Assistetti a una scena inimmaginabile: il più grande leader sindacale e una rappresentanza della classe operaia presi a sassate da studenti ed emarginati. Compresi all’istante che le mie categorie interpretative - classicamente marxiste - erano vecchie, inservibili. E la sera stessa scrissi di getto Le due società, che l’Unità avrebbe pubblicato tre giorni dopo con un titolo che ne nascondeva il senso: Nuove forme di anticomunismo. Poi a novembre sarebbe uscito il libro da Einaudi”. 

“Ed ero già vecchio - canterà De André - quando vicino a Roma a Little Big Horn, Capelli corti generale ci parlò all’università, dei fratelli tute blu che seppellirono le asce. Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace”. “Ci sarei andato lo stesso - ribadirà convintamente anni dopo Lama a un giornalista della tv svizzera che gli chiedeva se, sapendo che cosa bolliva in pentola, La Sapienza l’avrebbe evitata - era necessario far scoppiare il bubbone, bisognava che si capisse dove stava il pericolo e di che cosa si trattava. E infatti milioni di persone cominciarono a capire”.

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