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Con la proposta di legge n. 1739 depositata alla Camera si prevede la durata quadriennale dei corsi di studio per tutti gli indirizzi dell’istruzione secondaria di secondo grado. L’obiettivo dichiarato è quello di “anticipare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e favorire una formazione adeguata alle esigenze del tessuto socioeconomico”. Ne abbiamo discusso con Massimo Baldacci, ordinario di pedagogia all’università di Urbino e presidente di Proteo Fare Sapere.
“Quando si discute dell'educazione dell'essere umano – ci dice –, non ci si può riferire a una figura astratta. L'uomo possiede una natura storica e sociale, quindi la sua formazione deve essere pensata anche in rapporto alle sue funzioni concrete. Le modalità di esistenza sociale dell'uomo reale sono almeno due: come lavoratore e come cittadino. L'educazione di una persona completa deve quindi combinare entrambe queste dimensioni, e qualsiasi approccio unilaterale va perciò criticato e rifiutato”.
Come si declina tutto ciò rispetto alla proposta in discussione?
Sembra che l'educazione del cittadino rischi di essere trascurata. Tuttavia, la priorità di un Paese democratico deve essere quella di preparare le nuove generazioni in sintonia con i valori della democrazia, rendendole cittadini consapevoli e partecipi. Nessun programma che ignori questo aspetto può creare una scuola adatta a una nazione democratica. C'è un'altra considerazione da fare: il legame tra scuola e mondo del lavoro è spesso concepito in modo troppo diretto e meccanico. Come se la scuola dovesse formare un lavoratore "chiavi in mano" per le imprese, dotato di tutte le competenze necessarie per inserirsi immediatamente nel mercato del lavoro. Ritengo che questa visione sia limitata.
Per quale motivo?
È essenziale considerare il rapporto tra scuola e lavoro in modo più articolato, adottando un approccio più indiretto. La soluzione consiste nel creare meccanismi di mediazione tra scuola e mondo lavorativo. Non è realistico pensare che la scuola possa formare direttamente lavoratori "pronti all'uso": ci sarà sempre un divario tra la formazione scolastica e le esigenze delle imprese, uno scarto che va colmato attraverso strumenti di formazione aggiuntivi. Inoltre, l'attuale evoluzione dell'organizzazione del lavoro è caratterizzata da un rapido progresso tecnologico, accompagnato da una veloce obsolescenza delle tecnologie produttive. Formare un lavoratore con competenze tecniche specifiche e definite significa creare un professionista che rischia di diventare velocemente superato, poiché il suo bagaglio di competenze diventa rapidamente obsoleto e inutilizzabile.
Quale deve essere allora il vero obiettivo?
Il vero obiettivo dovrebbe essere formare un lavoratore capace di apprendere in modo continuo. In altre parole, la scuola non deve preparare per un ruolo specifico, ma deve formare una persona capace di aggiornarsi costantemente. Di conseguenza, occorre privilegiare la flessibilità cognitiva e la capacità di imparare, disimparare e riapprendere competenze e atteggiamenti mentali durante tutta la carriera lavorativa. Questo approccio cambia radicalmente il compito della scuola, portando alla luce un problema che non è stato ancora affrontato in modo adeguato. Abbreviare di un anno il percorso scolastico è in contraddizione con questa esigenza di flessibilità cognitiva. La capacità di imparare ad apprendere è proporzionale al numero di anni scolastici.
Il riferimento al “tessuto socioeconomico” sembra rivelare un’idea localistica della formazione…
Anche l’idea di un rapporto troppo diretto con la realtà locale può essere fuorviante. Se si sceglie di coltivare la capacità di imparare ad apprendere il perimetro di riferimento diviene necessariamente più ampio.
Sui 4 anni sono state già avviate alcune sperimentazioni e su questa linea è nata anche quella la sperimentazione della filiera tecnico-professionale e del liceo del made in Italy… Ritiene che per percorsi più professionalizzanti possa avere un senso?
Accorciare il percorso dei tecnici rischia di incrementare le diseguaglianze culturali tra i giovani. Al di là delle questioni professionali, tutti devono essere formati come cittadini in grado di partecipare in modo attivo e consapevole alla vita sociale e politica del Paese.
Quindi non va bene per nessun tipo di studi?
La nuova fase storico-sociale in cui viviamo richiede sempre di più che l’intera popolazione sia istruita e capace di pensare in modo autonomo. Misure di abbreviamento del percorso scolastico rappresentano un ostacolo alla realizzazione di ciò.
E sul metodo? Cioè, il fatto che venga utilizzato lo strumento della legge delega, coinvolgendo così al minimo il Parlamento?
In questo modo, oltre a impoverire il ruolo del Parlamento, si rinuncia al contributo di idee che una discussione aperta in sede parlamentare potrebbe dare al miglioramento dei provvedimenti. Posto che le forze politiche siano ancora capaci di un confronto aperto dove l’unico criterio di decisione è interesse collettivo.
In questi anni il governo – ma la sperimentazione sui 4 anni in verità era stata proposta anche dal ministro Bianchi – sembra procedere da solo con le sue riforme, senza coinvolgere il mondo della scuola. Come giudica questo modus operandi?
Escludere il mondo della scuola dal percorso di formazione delle scelte politiche che riguardano la scuola stessa rappresenta un doppio grave errore. In primo luogo, si rinuncia al contributo propositivo e critico che la scuola militante può fornire, e che permetterebbe di evitare scelte errate. In secondo luogo, far piovere le decisioni dall’alto indebolisce il grado di consenso attivo da parte del mondo della scuola. Non si deve dimenticare che in ultima analisi la scuola la fanno gli insegnanti. Nessuna misura politica può veramente funzionare se gli insegnanti non la fanno propria, se non le danno la propria adesione attiva.