Ancora una volta nessuna risposta da un governo scortese. Se è vero che domandare è lecito e rispondere è cortesia, nessun componente dell’esecutivo Meloni si è dato l’incomodo di buttar giù due righe dopo la missiva che i segretari generali di Slc Cgil, Fabrizio Solari, Fistel Cisl Alessandro Faraoni e Uilcom Uil, Salvatore Ugliarolo, hanno inviato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, a quella del Lavoro Marina Calderone e a quello dell’Economia e finanze Giancarlo Giorgetti.

Perché la lettera

Lo scorso 17 gennaio il Consiglio dei ministri ha dato il via libera a Tim per la vendita della rete al Fondo Kkr, cioè il semaforo verde al famigerato spezzatino dell’azienda di Tlc erede del monopolista italiano che così si priva del vero patrimonio, la rete appunto, trasformandosi o limitandosi ad essere un mero venditore di servizi.

Tutto questa senza nessun confronto con le organizzazioni sindacali non solo rispetto ai piani occupazionali e al destino di lavoratori e lavoratrici, ma anche riguardo alle ricadute che tale decisione avrà rispetto al diritto dei cittadini all’accesso alla rete ultraveloce e alla competitività del Paese. Ancora una volta, quindi, chi siede a Palazzo Chigi e nei ministeri disdegna quasi con disprezzo confronto e dialogo.

Una storia che comincia da lontano

Era la seconda metà degli anni Novanta quando l’allora compagine governativa decise di avviare le privatizzazioni e  tra queste quella del monopolista di telefonia e Tlc. “Quello a cui stiamo assistendo – afferma Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc Cgil – è l’inevitabile epilogo di un processo lento ma inesorabile di indebolimento dell'ex monopolista cominciato con una privatizzazione realizzata male. Furono fatte allora tutta una serie di prescrizioni che miravano a scalfire il ruolo di incumbent dell’azienda più che a regolare il settore e il mercato. Oggi se ne pagano gli effetti. Pagano i dipendenti e il Paese intero”.

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Una storia che prosegue male

Una partenza sbagliata, dunque, a cui si sono succedute vendite e svendite che hanno avuto troppo spesso come protagoniste aziende deboli, se non fondi finanziari che avevano a cuore i propri guadagni e non lo sviluppo del settore e dell’azienda.

Il tutto in un mercato fortemente competitivo, solo che la competizione si è tutta giocata sulle tariffe, logica assolutamente perdente visto che – oltre a tutto il resto – queste aziende sono fortemente energivore e non è affatto detto che la tariffa più bassa sia davvero la più conveniente per il consumatore. Il risultato è stato un aumento esponenziale dell’indebitamento.

E oggi l’inevitable

Il risultato di tutto ciò è che da noi il tasso di penetrazione della fibra è tra i più bassi di Europa e che Tim ha un debito che supera i 26 miliardi. Insomma siamo all’insostenibilità. Tutto ciò era inevitabile? E, soprattutto, è inevitabile lo spezzettamento aziendale e la cessione della rete?

Secondo Saccone si potevano percorrere altre strade: “La rete andava rafforzata mantenendone l’unicità e facendo entrare un capitale pubblico paziente. E invece si è imboccata la via opposta e la parabola discendente è inevitabile. Proprio ora che avremmo bisogno di un campione nazionale in grado di digitalizzare tutto il Paese, comprese le zone a fallimento di mercato”.

Le zone svantaggiate

Il Mezzogiorno, certo, ma anche le aree interne delle regioni del Centro e del Nord o la Pedemontana di Veneto, Lombardia e Piemonte. E potremmo continuare. E a nulla varranno le risorse del Pnrr, basti pensare che i bandi per portare la rete veloce nelle isole minori sono andati più volte deserti, perché le aziende non investono non avendo la certezza della remunerazione del capitale.

“Più volte abbiamo detto  – aggiunge il dirigente sindacale – che il processo di costruzione della rete a banda larga equivale a una nuova elettrificazione del Paese”. Allora si nazionalizzò l’Enel e si riuscì a fare ciò che le tante piccole aziende private non erano arrivate a compiere, visto che garantivano un servizio dignitoso nelle zone a convenienza di mercato e nel resto del Paese c’èerano blackout continui.

La storia recente

Era l’agosto del 2020, a Palazzo Chigi sedeva Giuseppe Conte per il suo secondo governo, mentre a dirigere la Tim era Gubitosi. All’epoca si firmò un memorandum insieme a Cassa depositi e prestiti per l’unificazione delle reti di Tim e di Open Fiber, sotto il controllo della prima, per dare vita alla rete nazionale.

L’estate dell’anno dopo a guidare il governo c’era Draghi e il memorandum fu “superato”, si sostenne che l’Europa non lo avrebbe consentito. “Su questo ci sarebbe da discutere”, sostiene il segretario Slc, sta di fatto che di quel progetto non se ne fece più nulla. Pietro Labriola arrivò ai vertici di Tim e si avviò lo spezzatino”.

La strada tracciata

Tra giugno e luglio, se tutto andrà come previsto, dovrebbe nascere la società della rete. Sarà al 70% di Kkr, al 20% del ministero del Tesoro e al 10% del Fondo F2i. Vi dovrebbero confluire circa 20 mila dipendenti. In capo a Tim nella nuova società dei servizi, ne resteranno, invece, circa 16 mila con un azionariato che vede Vivendi al 23.75%, Cassa depositi e prestiti al 9.81% e il restante diviso fra investitori Istituzionali, esteri in prevalenza, e altri azionisti.

La prima società, quindi, non avrà altro compito che “stendere” il filo per costruire l’infrastruttura ma che però sarà “non intelligente”, visto che tutti i pezzi intelligenti, dai data center ai servizi per grandi imprese e per la pubblica amministrazione, rimangono dall'altra parte. Insomma si darà vita a una sorta di Anas della rete.

Quale destino per lavoratori e lavoratrici

I rischi e quindi le preoccupazioni ci sono. Nel primo caso per 5-6 anni i 20 mila che devono costruire l’infrastruttura staranno tranquilli. Ci sarà da fare  e ci sono pure i soldi, visto che le risorse arrivano dall’Europa (sono quelle del Pnrr).

Ma poi? Dice Saccone: “Poi per gestire la manutenzione di una rete nuova e che si logora molto meno di quella in rame sono troppi. È vero, per fortuna, che molti di loro hanno un’età medio-alta e speriamo di poter utilizzare per loro l’andata in quiescenza”. La situazione non è, invece, affatto tranquilla per gli altri 16 mila.

Le altre società di servizi – Wind Tre, Vodafone, Fastweb, Iliad – tutte insieme non raggiungono i 16 mila dipendenti, ma competono sullo stesso spazio di mercato e la competizione si gioca sulle tariffe e sul costo del lavoro. Per di più a febbraio scadranno gli ammortizzatori sociali, ed è bene ricordare che lavoratori e lavoratrici è dal 2009 (anno di attivazione del contratto di espansione) che fanno sacrifici.

Il Paese

È davvero amara la conclusione di Riccardo Saccone: “Non credo che quel modello riesca a cablare il Paese in modo omogeneo, portando la stessa velocità, la stessa potenza, la stessa intelligenza in tutto il territorio”. Quanti saranno i clienti che nelle pedemontane, nelle zone interne o nelle piccole isole chiederanno 100 mega di banda?

E allora comunque all’impresa che deve remunerare il capitale e far profitto non converrà portarla. “Non sono affatto convito che la soluzione individuata farà gli interessi generali del Paese. Il rischio - paventa il segretario della Slc – è che la competitività dell'Italia si abbassi ulteriormente, perché oggi si gioca sostanzialmente sulla digitalizzazione”.