Inflazione, deflazione, politica monetaria, quantitative easing. Quante volte abbiamo letto o sentito questi termini nelle ultime settimane, quando i giornali o i tg hanno riportato notizie riguardanti il rincaro dei prezzi o quando hanno annunciato un aumento della benzina o del gas? Per capire che connessione c’è tra i diversi fenomeni economici e qual è la situazione attuale, abbiamo chiesto aiuto a Mario Pianta, professore di politica economica alla Scuola normale superiore di Firenze.

L'inflazione negli Stati Uniti è tornata ai livelli del 1990, superando a ottobre la soglia del 6 per cento, un dato in continua crescita e un fenomeno che non è isolato. Anche l'Eurozona sta sperimentando livelli di inflazione di un passato da molti dimenticato. Siamo al 4,2%, come non accadeva dal 2008 e prima di allora dal 1992. Che cosa sta succedendo?

A livello internazionale gli effetti della crisi economica provocata dalla pandemia di Covid 19 sono stati particolarmente complicati e articolati. Uno degli effetti principali è stato quello di far cadere la produzione e la domanda di beni, soprattutto quelli intermedi, per un lungo periodo del 2020 e poi nella prima parte del 2021, compresa la domanda di petrolio e di materie prime. Negli ultimi mesi di quest’anno invece si sono registrati tassi di aumento della produzione in molti settori e con un ritmo molto rapido. Questa ripresa in Europa, negli Usa e nei Paesi emergenti ha comportato la richiesta di un grande flusso di beni. E dato il livello di globalizzazione che ha raggiunto l’economia negli ultimi trenta anni, molte di queste risorse devono arrivare dall’altra parte del mondo: la soia per i mangimi dall’America Latina, le componenti elettroniche, i chip e i semiconduttori dalla Corea, dal Sud-est asiatico e dal Giappone, e così via. Il flusso delle merci trasportate dalle grandi navi a livello mondiale è stato scombinato dagli effetti della crisi e così si sono verificati dei grossi colli di bottiglia.

L'intervista in podcast

 

Questo sconvolgimento delle catene di fornitura ha provocato la scarsità di beni e causato l’inflazione?

Sì la scarsità di alcuni beni, in una logica di mercato, si traduce in un aumento dei prezzi. Ma in questo caso si tratta di un incremento localizzato su materia prime, semilavorati, risorse naturali e prodotti che hanno bisogno di questo tipo di trasporto, differenziato tra Paesi, ma con elementi in comune, come il settore del petrolio: prima era stato lasciato sotto terra e adesso invece deve arrivare quanto più velocemente possibile per alimentare le produzioni, sebbene a Glasgow ci siamo presi l’impegno a ridurne l’uso in modo significativo, perciò da un punto di vista energetico c’è una situazione di grande confusione.

Possiamo dire che non c’è stato un aumento generalizzato dei prezzi?

È così. Da questo punto di vista, il confronto con il passato è completamente sbagliato. Non si può paragonare questa inflazione a quella degli anni Settanta o anche degli anni Novanta, perché è di tipo localizzato e legata a distorsioni, dovuta a colli di bottiglia in mercati e settori particolari, ma questo non vuol dire che è in atto uno sconvolgimento del sistema economico nel suo insieme. Gli effetti arriveranno ai prezzi ai consumatori: è su di loro che alla fine gli aumenti saranno scaricati. Pur essendo localizzati, gli incrementi avranno un impatto sui redditi reali dei cittadini e dei lavoratori, come nel caso dell’energia. Il fatto è che ci siamo abituati ad avere un beneficio dalla produzione globale, che spinge verso il basso i salari, i costi e la tutela ambientale in cambio di prezzi convenienti. Ci siamo abituati a comprare beni a prezzi bassi, stabili da vent’anni. Ma questo non è un segno di efficienza del sistema, piuttosto un indicatore della violazione dei diritti del lavoro e della tutela ambientale e di un’estrema insostenibilità di un modello che fa produrre un paio di pantaloni in dieci Paesi diversi e li porta in giro per il mondo su navi portacontainer, quando invece la produzione potrebbe essere invece localizzata nei posti dove quei jeans si usano.

Stiamo correndo il rischio che a causa dell’inflazione si cambi la politica monetaria?

Sta emergendo una discussione tra economisti e banchieri centrali, negli Stati Uniti come in Europa. Sono pronti a dire: c’è l’inflazione, quindi dobbiamo cambiare la politica monetaria, passare a una meno aperta, meno caratterizzata dall’aumento della base monetaria e dai bassi tassi di interesse. Questo tipo di dibattito è molto pericoloso perché i conservatori tedeschi e i repubblicani americani sono da sempre ostili a una politica di tipo keynesiano, espansiva sul piano monetario, della politica fiscale e della spesa pubblica come è la Next Generation Ue che finalmente è arrivata dopo venti anni che si chiedevano politiche comuni a livello europeo. Anche se si tratta di un programma limitato e temporaneo, stiamo andando nella direzione giusta. Ma se torniamo a una politica restrittiva, che aumenta i tassi di interesse, riduce l’offerta di moneta e lotta contro l’inflazione per portarla a zero, quando negli ultimi dieci anni è stata sostanzialmente quasi sotto zero nella maggior parte del periodo, uccidiamo in culla quel barlume di ripresa che iniziamo a vedere. Per quanto riguarda la produzione, l’occupazione, il reddito siamo ancora sotto i livelli di prima del 2019. È quindi importante che non si cambi la politica espansiva sul piano monetario e si espanda ulteriormente quella di tipo fiscale. Anche perché gli effetti di una restrizione monetaria sarebbero drammatici.

Quali potrebbero essere, professore?

Ricordiamo che ci siamo indebitati pesantemente durante questi anni di stagnazione, e soprattutto per effetto delle misure straordinarie legate alla crisi pandemica. L’Italia ha avuto un boom di spesa pubblica in deficit per sostenere i redditi delle famiglie e per sostenere le imprese. Questo tipo di indebitamento, che si somma all’enorme indebitamento delle aziende, è sostenibile se i tassi di interesse sono vicini allo zero, diventa pesantissimo se diventano significativamente positivi, il due, tre, quattro per cento, perché una quantità enorme di risorse viene tolta all’economia e alle attività per consegnarle alle banche e alla finanza. Un cambio di politica improntata alle restrizioni avrebbe effetti devastanti sia sulle prospettive di crescita dell’economia, per recuperare la crisi passata, che sugli effetti distributivi, perché avremmo come conseguenza tagli alla spesa pubblica, quindi attacchi al welfare state, riduzione della spesa sociale, delle pensioni, della spesa sanitaria, e avremo anche le imprese che non hanno investito per dieci anni e che adesso cominciano a riprendere a un po’ di investimenti e quindi ad assumere, si ritroverebbero in difficoltà da un punto di vista finanziario. Quindi se cambiassimo la politica monetaria, congeleremmo la dinamica di crescita e torneremmo a una crisi e a una grande depressione.