Il 18 dicembre 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), ratificata dall’Italia con la Legge 132/1985 (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979, entrata in vigore il 3 settembre 1981, è stata firmata dall’Italia il 17 luglio 1980 e ratificata con legge del 14 marzo 1985, n. 132, depositata presso le Nazioni unite il 10 giugno 1985).

Una convenzione volta a eliminare “ogni distinzione, esclusione o restrizione, sulla base del sesso, che ha l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, da parte delle donne, a prescindere dal loro stato civile, su una base di parità tra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo, senza stereotipo di ruolo di genere”.

Gli Stati che ratificano la convenzione sono tenuti a sancire la parità di genere nella loro legislazione nazionale, ad abrogare tutte le disposizioni discriminatorie nelle loro leggi e a emanare nuove disposizioni per premunirsi contro la discriminazione delle donne. Ma è davvero andata così?

Solo il 22% dei dirigenti in Italia sono donne, contro il 78% degli uomini. Secondo quanto emerge dall’ultimo ‘Global Gender Gap Report’ del World Economic Forum, un documento stilato ogni anno dal Wef che fa il punto sulle disparità di genere, nella classifica globale sulle disuguaglianze l’Italia è oggi settantaseiesima su 153 Paesi. Il nostro bel paese è 44esimo in quanto a ruolo delle donne in politica, 30esimo per la quota di donne in Parlamento, 117esimo per opportunità e partecipazione economica, 125esimo per parità retributiva tra uomini e donne.

Per colmare il cosiddetto gender gap, stimava il global gender gap report del 2018, potrebbero volerci più di 100 anni. Secondo un rapporto dell’Onu, nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Questo accade perché solitamente lavorano meno ore retribuite (qualcuno alla casa deve pure badare, no?), operano in settori a basso reddito o sono meno rappresentate nei livelli dirigenziali delle aziende. Ma accade anche, semplicemente, perché ricevono in media salari più bassi rispetto a quelli dei loro colleghi maschi a parità di responsabilità e lavoro. Una situazione già di per sé grave che la pandemia ha da un lato - se possibile - aggravato, dall’altro messo a nudo, senza pietà. Il 4 maggio 2020 a tornare al lavoro è stato il 72,4% degli uomini.

Perché quando c’è da decidere chi deve fare un passo indietro la decisione in pratica è già presa: le donne. Sempre meno a lavorare e sempre meno a cercare lavoro in un Paese in cui la percentuale di occupazione femminile, già bassissima, rischia di crollare. Diceva non molto tempo fa la responsabile delle politiche di genere della Cgil nazionale Susanna Camusso:

Vogliamo una legge sulla parità retributiva una contrattazione capace di escludere i fattori discriminanti, l’accesso alla formazione, una percentuale obbligatoria di presenza nei livelli intermedi e apicali. Spesso quando a dirigere è una donna si lavora meglio tutti e tutte. (…) E il lavoro che non c’è. L’Italia, ormai lo ripetiamo come un disco rotto, è agli ultimi posti in Europa per occupazione femminile. Lo ripetiamo ma nulla cambia. Eppure è dimostrato che ad aumento di lavoro delle donne corrisponde aumento di punti di Pil. La Cgil nel 2013 ha lanciato il Piano per il lavoro e due anni dopo il Piano straordinario per l’occupazione femminile e giovanile. Tabelle, indicatori, risorse e settori di intervento: è tutto scritto basta rileggere e cominciare. Soprattutto, per aumentare l’occupazione femminile è indispensabile il riconoscimento sociale della maternità e della cura come lavoro. Ed allora serve l’aumento dei congedi parentali anche per gli uomini, più asili nido, in tutto il Paese ma soprattutto al Sud dove non ci sono. E ancora, pensiamo siano necessari la formazione continua, anche dopo le maternità, e interventi per la non autosufficienza. Ma non ci accontentiamo di questo. Uomini e donne sono diversi, diversi i loro corpi. La salute, quindi non è neutra. E’ indispensabile una vera e propria strategia per superare le diseguaglianze di genere nei servizi alla salute. A quarant’anni dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale, quello che dovrebbe dare attuazione all’art. 32 della Costituzione, vogliamo finalmente costruire inclusività e universalità del diritto alla salute, per chi è nata in Italia e per chi vi è arrivata. Occorre partire dal far tornare la rete dei consultori a quello straordinario sistema che fu quando nacque nel 1975: luoghi di presa in carico di donne e bambini, di prevenzione, cura e riabilitazione. La Legge 194 deve essere pienamente esigibile, e in tutte le sue parti, in ogni angolo del Paese. Non saranno né incongrui e paradossali ministeri per la famiglia, né senatori retrogradi a farci tornare indietro. La libertà e l’autodeterminazione delle donne è una battaglia che abbiamo vinto! C’è una battaglia, invece, che al momento ci vede sconfitte, quella contro la violenza nei confronti delle donne. Abbiamo perso il conto dei femminicidi, e forse è una contabilità che non vogliamo tenere perché ciascuna donna che muore uccisa da chi diceva di amarla è una sconfitta per tutti. Contro le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro è necessaria una contrattazione di genere e la formazione specifica delle Rsu. Ma non basta. Occorre intervenire fuori da fabbriche e uffici per costruire una diversa cultura, diversa da quella del potere, del predominio e del possesso. Noi donne della Cgil saremo in ogni piazza, assemblea, strada o abitazione, insieme ad altre per far crescere ed affermare parole, pensieri, consapevolezze indispensabili a combattere il tentativo di farci tornare al medioevo (…) Per costruire un Paese a misura di donne e quindi migliore per tutti. Perché tutte insieme siamo una forza e vogliamo tutto!”.

Vogliamo una società più giusta nella quale avere una presidente del Consiglio o della Repubblica donna possa risultare una cosa normale, così come l’idea che a parità di lavoro corrisponda - per uomini e donne - parità di salario. Una società in cui il lavoro di cura non venga considerato una prerogativa esclusivamente femminile, nella quale non si chieda più a nessuno a un colloquio di lavoro “Lei ha intenzione di avere figli”, o “È  sposata?”. Una società in cui un uomo che usufruisce del congedo parentale non venga definito “mammo”, una società in cui ciascuno di noi non si limiti a dire “non agisco”, ma nella quale ognuno senta il dovere di affermare “io contrasto”, la violenza, la discriminazione, quei retaggi patriarcali che ancora oggi - purtroppo - tanto spazio hanno nel nostro Paese.

Allora, solo allora, potremmo finalmente dire “È andato tutto bene”.