Ricercatrice indipendente, Vanessa Roghi è autrice di documentari per La Grande Storia di Rai Tre, e ha insegnato Storia contemporanea all’Università Roma Tre, Storia e TV nella Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza”. Bodini Fellow presso l'Italian Academy della Columbia University (2020-2021), tra le sue pubblicazioni troviamo libri diversi, che intrecciano tratti significativi di vita personale come in Piccola città (Laterza, 2018), dove la ricerca storica e culturale viene mescolata con felice intuizione alla narrazione vivida, con volumi che lasciano intendere la sua naturale passione per il mondo della scuola, dell’istruzione in generale, dell’applicazione pedagogica funzionale a un continuo sguardo rivolto verso l’innovazione didattica. Da qui gli scritti di questi anni, sempre per Laterza, ultimo dei quali “Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica” (pp. 208, euro 18), dopo aver già chiamato in causa Don Milani (2017) e Gianni Rodari (2020), per costruire una riflessione articolata sul senso e il significato dell’insegnamento oggi, interpellando e lasciandosi consigliare da tre grandi maestri di ieri, che senza tema di smentita rimarranno tali anche domani.

“La lettera sovversiva”, “Lezioni di fantastica”, ”Il passero coraggioso” sono tre libri in maniera diversa dedicati rispettivamente a Don Milani (e Tullio De Mauro), Gianni Rodari e Mario Lodi, del quale ricorre il centenario dalla nascita. Avevi pensato da subito una trilogia di questo tipo, oppure è venuta fuori nel tempo?
È venuta nel tempo. All’inizio volevo soltanto scrivere un libro di risposta, per così dire, a quegli insegnanti che pensavano a Don Milani come a qualcuno che non avesse capito nulla o quasi di scuola, inaugurando una parabola discendente espressione della conservazione più feroce all’interno del mondo della scuola, senza nulla togliere a chi conservatore lo è stato da sempre per ideologia. Ma avevo notato che anche chi, per storia personale e culturale, aveva sostenuto la battaglia per una scuola inclusiva, da qualche tempo si rivelava essere variamente conservatore sul tema. Il casus belli arrivò da una professoressa che mi disse “ok, ho letto Don Milani, ma quando devo mettere un 4 metto 4”. Da qui il desiderio di scrivere “La lettera sovversiva”.

E poi?
Poi è accaduto che mentre lo stavo finendo è tornata a circolare la frase di Gianni Rodari sull’utilizzo della lingua per tutti come strumento democratico (“Tutti gli usi della parola a tutti (…) Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”), con la quale ho chiuso il libro, per mettermi a studiare Rodari. In più nel precedente, data la figura di Don Milani, non avevo avuto modo di approfondire la storia del partito comunista declinata al mondo della scuola; mentre Rodari, che ne faceva parte, ne offriva l’opportunità. Lavorando a Rodari mi sono poi resa conto che doveva buona parte del suo la voro all’MCE, il Movimento di cooperazione educativa, e quindi visto che Mario Lodi era una figura che ho sempre amato, ai limiti della venerazione, ho pensato che dovevo chiudere il cerchio con lui, tornando a riflettere su una scuola come luogo di emancipazione, come era stata la mia. Ma è un iter che all’inizio non avevo pensato. 

Nel libro viene ben argomentato, ma potresti qui spiegarci in sintesi il rapporto che esiste tra “Cipi”, il libro di Mario Lodi, e la “Lettera a una professoressa” degli studenti di Don Milani?
Don Milani a Barbiana è un prete militante che ha capito, provenendo da famiglia molto colta, che la distanza tra lui e i contadini è soprattutto di natura linguistica, e che dunque la conoscenza della lingua è strumento essenziale per colmare anche la distanza materiale che li separa. Così quando arriva a Barbiana, punito dai suoi superiori per aver fatto scuola ai figli degli operai, capisce che con i figli dei contadini colmare queste distanze è ancora più difficile, dovendo combattere anche con il fenomeno dell’abbandono scolastico, le migrazioni, l’estrema povertà. Allora trova un punto di vista che coinvolge i ragazzi organizzando conferenze, incontri con persone che parlano con loro, mantenendo però una visione verticale dell’insegnamento, tra chi sa le cose e chi deve impararle.

Poi arriva l’incontro con Lodi…
Sì. Quando arriva Mario Lodi il suo insegnamento è quello di ascoltare la voce di questi allievi, a conoscere la cultura materiale a prescindere dal loro livello di istruzione, evidenziando che anche i figli dei contadini conoscono cose interessanti, a Vho come a Barbiana, e la raccolta delle loro voci porta alla scrittura collettiva. Gli studenti si scambiano lettere, imparando per l’appunto quella scrittura collettiva che poi useranno in altre occasioni, il cui momento più alto viene toccato nel 1967 dalla “Lettera a una professoressa”, per la quale scrivono tutti, così da scegliere la frase migliore. Un esempio di quella che rimane la punta di diamante del nostro sistema di istruzione, la vecchia scuola elementare, ora primaria. Alla quale forse bisognerebbe guardare di più per migliorare anche gli altri ordini e gradi di istruzione.

“Il Paese sbagliato” è invece del 1970, e diviene subito un libro imprescindibile, custodito da oltre mezzo secolo nelle librerie di generazioni di insegnanti. Cosa ha raccontato di così importante al mondo della scuola?
Prima di tutto esce nel momento giusto, quando l’attenzione sulla scuola è altissima, appena dopo il ’68. Poi Lodi è un grande scrittore, che riesce a raccontare meglio di altri il lavoro di colleghi e colleghe. Inoltre si tratta di un mix di militanza e attività pratica, ben articolata nello svolgimento del libro, che non è un manifesto, ma un breviario su come si sta a scuola, caratterizzato da una forte spinta iniziale, la “lettera a Katia” che è ancora molto attuale e ruota intorno a un tema universale per il mondo della scuola: abbattere il muro della prigione. Infine si aggancia alla trama della vita quotidiana della classe, raccontando vite ripetibili, riproducibili. Vite reali.

Chiudiamo sulla scuola di oggi, ragionando di modelli didattici. Quale opinione hai della scuola pubblica italiana di questo secolo? Siamo indietro, siamo avanti? Come dovrebbe cambiare la didattica in Italia?
Nel libro si riflette sulla trasformazione della definizione di scuola democratica, un problema che parte dalla testa, dal Ministero, dai ministeri. Perché quando si smette di investire sulla scuola la democrazia non va da nessuna parte. E parlare di scuola democratica significa parlare di molte cose: di didattica, di inclusione, di dispersione, di reclutamento, di stipendi, di precariato, di concorsi fatti male, di formazione un tanto al chilo, con il risultato di avere insegnanti mal pagati e mal formati. La speranza risiede nella volontà umana delle persone, che insegnano con passione e serietà tutti i giorni, a prescindere. Certo è dura dover confidare completamente sulle virtù dei singoli, e non sul ministero. Ecco perché la speranza è nella pratica dei singoli, che poi nel caso di Mario Lodi ha portato al cambiamento. Prima c’erano più fondi e finanziamenti, ma non è che le condizioni fossero rosee.

E la didattica?
Si è fermata. Da un lato la primaria con l’allargamento dal maestro unico a un gruppo di persone che poi rimangono le stesse. Ma il dramma vero è che un’idea diversa di didattica non sia stata estesa negli ordini superiori: anzi credo prevalga un atteggiamento antididattico, antipedagogico, come se studiare la didattica e la pedagogia facesse perdere il significato del proprio ruolo. Come se io, che sono una storica, mettendomi a ragionare di didattica o di tecniche pedagogiche perdessi il valore, la “sacralità” della materia. Chiaro che bisogna conoscere la propria materia, ma ci si deve anche porre il problema di come insegnare nel 2022, in una cornice completamente diversa da prima, soprattutto per rapidità e apprendimento. Bisogna tornare a ragionare su didattica e pedagogia, altrimenti si rischia di parlare al vuoto, al nulla. Mi viene in mente “Eresia catara”, la novella di Pirandello in cui il protagonista, un professore di storia delle religioni, non si accorge di far lezione in un’aula senza studenti. Ecco, dovremmo cercare di evitare l’assenza di studenti e studentesse durante le lezioni. In ogni senso.