Nato il 28 aprile del 1938, Claudio Sabattini è stato un sindacalista sui generis. Dopo esser stato costretto a vivere da bambino gli orrori della guerra si dedica agli studi classici nella sua Bologna, agli occhi della mamma quasi tradendo le sue origini. In seguito  intraprende un percorso di vita che lascerà il segno nella storia politica e sindacale del secondo Novecento italiano, e non solo.

Questo e molto altro viene raccontato nel libro scritto da Gabriele Polo, dal titolo Il sindacalista. Claudio Sabattini, una vita in movimento (Castelvecchi editore, pp.421, euro 25), una biografia che biografia non è, perché tralascia di soffermarsi sul riflesso agiografico del personaggio, a vantaggio di una narrazione che mescola la vita del protagonista con lo scorrere della storia, la storia di un Paese che si trasforma nello svolgersi dei decenni sino agli albori del nostro secolo, sino alla morte dello stesso Sabattini, scomparso nel 2003.

E il valore aggiunto di questo volume risiede proprio qui, in questo taglio voluto dall’autore per offrire al lettore un punto di osservazione diverso, la narrazione degli eventi più importanti che hanno costituito il cammino di un’altra Italia, quell’Italia che ha vissuto conquiste e sconfitte nel segno del lavoro e dei lavoratori, con uno sguardo peculiare rivolto al lavoro di fabbrica, alla categoria dei metalmeccanici.

Quando il 7 ottobre del 1970 Sabattini diventa segretario generale della Fiom di Bologna, la sua formazione politica e sociale lo ha già visto confrontarsi con varie e decisive esperienze: a partire dalla Fgci, l’approdo al sindacato arriva dopo aver militato nel Pci e dentro il movimento studentesco alternandosi, come Polo scrive, “tra consiglio comunale e circoli di lettura, l’innamoramento per Rosa Luxemburg e l’addio a Lenin”.

Il tutto mette Sabattini “alla prova dei fatti”, soprattutto dopo aver appena partecipato, immerso anima e corpo, a quella grande rivoluzione in termini di diritti e di rapporti con il nascente nuovo ordine capitalistico rappresentata dalle lotte scaturite nel secondo biennio rosso, passato agli annali come Autunno caldo. Di lì a poco si avrà lo Statuto dei lavoratori, che molti saluteranno come punto di arrivo, mentre per uno come Sabattini si tratta dell’inizio di nuove battaglie sul campo, spesso aspre e dure, in alcune circostanze ai limiti di una violenza a lui estranea e inaccettabile..

Entriamo così non solo in un nuovo decennio ma in un’altra fase storica, che vedrà nel 1977 l’anno cruciale e di non ritorno, il volto di un Paese che si trova per la prima volta a fare i conti con precariato e disoccupazione e con una generazione giovane e giovanissima, che al riformismo di matrice sessantottina contrappone il conflitto della e nella comunicazione, politica e culturale, dando sfogo a tutte le potenzialità e le contraddizioni dell’epoca che ancora viviamo, a partire dal senso stesso del lavoro, non più vissuto come diritto da difendere quanto come ostacolo a nuovi orizzonti cerativi ed esistenziali. Ancora una volta, Bologna sarà in questo senso un riferimento imprescindibile. 

Se il decennio Settanta si conclude con la follia terrorista, il successivo per Sabattini si apre in disgrazia. Passato alla guida della Federazione Lavoratori Metalmeccanici, nell’autunno 1980 diviene il capro espiatorio della sconfitta sindacale nello scontro con la Fiat, certificata dalla “marcia dei quarantamila”: è questo il periodo più difficile della sua carriera politico-sindacale, forse della sua intera esistenza. Seguirà infatti un periodo piuttosto lungo di distacco se non di oblìo, quasi di esilio più o meno volontario, sino al nuovo ruolo come responsabile internazionale della Cgil (un incarico con l’amaro gusto di chi viene messo indirettamente da parte), prima di tornare dove più gli compete, alla guida della Fiom in qualità di segretario generale, ruolo che ricoprirà dal 1994 al 2002, un anno prima di morire.

Qui Sabattini mostra ancora una volta quelle che sono le sue propensioni umane e caratteriali, oltre che sindacali, motivando la definizione scelta da Polo nel sottotitolo, quell’attitudine alla “vita in movimento" come tratto peculiare. Un Movimento che dopo l’ascesa del primo Silvio Berlusconi, la “nuova autobiografia di una nazione”, trova nel sindacato dei metalmeccanici un sostegno immediato e concreto, come dimostreranno le manifestazioni “no global” iniziate alla fine degli anni Novanta dopo le insurrezioni di Seattle, culminate nel 2001 durante il G8 di Genova. Un evento emblematico, oltre che drammatico, che lo stesso Sabattini commenterà così, qualche settimana dopo quelle giornate che lo videro presente nelle strade della città ligure:

Il movimento deve avere una sua idea, una sua cultura, delle sue proposte e delle sue grandi iniziative di massa. In questo senso penso che l’allargamento della democrazia sia una questione cruciale, perché le sue forme tradizionali non sono più sufficienti. Per nessuno. Io ho la sensazione che le forme che permettono oggi di decidere nel movimento non siano democratiche; bisogna allargare la rappresentanza del movimento non solo nei grandi appuntamenti, ma quotidianamente, in tutti i passaggi, nelle valutazioni, nelle idee generali con cui guardi il mondo; di cui la grande manifestazione è espressione del processo, non è il processo. In questo caso io sono disposto a farmi contaminare, (…) ma deve riguardare tutti, perché non si può stare dentro il movimento per dire delle cose e poi si va nella propria organizzazione o nel proprio partito a decidere cosa deve fare il movimento. Queste cose le ho già viste tante volte, mi dispiace persino un po’ per chi le fa.

Poche righe, una manciata di tempo prima di morire, che di Claudio Sabattini, del suo modo di intendere la politica, la società, il lavoro, il sindacato, ci dicono molto.