Ci sono temi di cui tutti parlano ma pochi sanno, o almeno non ne conoscono la storia, né hanno mai contemplato un’analisi approfondita dello svolgersi degli eventi. Questo accade spesso per incompletezza di notizie dovuta a vari motivi, anche di convenienza, di solito una convenienza di natura politica.

Uno di questi temi è quello degli sbarchi in Italia, come comunemente definiti; un argomento ampio e complicato sul quale la speculazione politica naviga, è proprio il caso dire, da oltre vent’anni, almeno dalla promulgazione della cosiddetta legge Bossi-Fini. Per questo diventa ancora più preziosa la lettura del volume appena pubblicato nella collana Sessismo & Razzismo di Futura editrice, dal titolo Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche (pp.340, euro 20), un saggio scritto da Pamela Marelli, che al suo impegno come bibliotecaria ha già coniugato in altre pubblicazioni un intenso lavoro di ricerca sui diritti delle donne e del popolo migrante, con un occhio rivolto al mondo del lavoro.

Il libro ripercorre i maggiori naufragi di migranti avvenuti nel corso degli ultimi trent’anni, tra il 1990 al 2020, attraverso le tracce lasciate nelle culture pubbliche. Ma cosa si intende con questa definizione? Lo spiega ben nelle prime pagine la stessa autrice:

“Indagare le modalità con cui nelle culture pubbliche si rappresentano i naufragi di migranti significa analizzare da un particolare punto di osservazione la società contemporanea, riflettendo sui meccanismi che formano la collettività, il senso di appartenenze e di esclusione, le narrazioni condivise e quelle conflittuali”.

L’inizio di questo doloroso viaggio parte dalle settimane appena successive la caduta del Muro di Berlino, non senza aver ricordato prima, e doverosamente, la figura di Jerry Masslo, il cui assassinio nell’agosto del 1989 è divenuto il simbolo della lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori agricoli neri.  Ma gli anni Novanta si aprirono in Italia con la “questione albanese”, rappresentata in maniera indelebile dall’odissea della nave mercantile Vlora, approdata in Puglia nell’agosto del 1991, della quale ci ha raccontato tra gli altri il mai troppo compianto Alessandro Leogrande, giustamente ricordato nella ricostruzione delle fonti, che ci ha lasciato un patrimonio di scrittura unico nel suo genere tra cui, per l’appunto, “Il naufragio” e “La frontiera”.

“L’isola intera stava reagendo in una vera maratona di solidarietà. Numerosissime famiglie avevano aperto le loro case per accogliere i sopravvissuti e si erano prese cura di loro, ma stavamo anche combattendo contro una burocrazia che, invece, non riusciva invece a dare risposte in tempi rapidi. In Comune e al poliambulatorio le urla del sindaco  - e le mie – erano continue. Chiedevamo attenzione e aiuto concreto. Il 3 ottobre, ne eravamo consapevoli, aveva cambiato per sempre la nostra storia”.

Da quella tragedia sono passati altri anni, e tanti altri morti. Troppi. Solo da questi pochi cenni è già possibile comprendere il valore assoluto di questo libro, vero e proprio archivio di quanto accaduto nel mare nostrum. Un archivio “corporeo, emozionale, politico”, che fa riemergere storie depositate nell’abisso.

Il libro viene presentato il prossimo venerdì, 14 gennaio, nella sede di Casetta rossa, in via Giovanni Magnaghi 14, Roma.