Nell’agosto 1952 Giuseppe Di Vittorio compie 60 anni. Un avvenimento importante, che i suoi festeggiano prima a Cerignola - il 3 agosto - poi a La Spezia.

Scrive la moglie Anita nelle proprie memorie: “Il 3 agosto 1952, tutta Cerignola era in festa. Forse fu quella la più grande festa della città. Peppino, il bracciante, il 'cafone', ebbe manifestazioni straordinarie di affetto e di gratitudine da tutti i suoi concittadini e compagni di lotta. Regali simbolici: pane, cicoria, mandorle, olio, frutta d’ogni genere e poi medaglie, pergamene, oggetti d’ornamento per la casa gli vennero offerti da delegazioni giunte da tutta la Puglia. Di Vittorio rispose a quell’infinito affetto con uno dei suoi più significativi discorsi, forse il più bello, il più semplice, il più umano”.

8000 iscritti in 15 giorni in onore di Di Vittorio, scriveva l’Unità l’8 agosto, riportando quattro giorni più tardi la lettera di auguri a lui indirizzata da Palmiro Togliatti.

“Abbiamo fatto molta strada assieme, caro Di Vittorio - scriveva il Migliore - Assieme abbiamo lavorato, resistito, combattuto. Siamo stati alla scuola delle persecuzioni e dell’esilio, ma anche alla grande scuola del movimento operaio comunista internazionale (…) Così abbiamo potuto conoscerci a vicenda ed io ho conosciuto in te, prima di tutto, il figlio devoto di quel popolo italiano, di cui provasti le sofferenze e di cui possiedi le grandi capacità di intelligenza e tenacia (…) Saluto in te il militante proletario, artefice ostinato e capo della grande organizzazione unitaria degli operai e di tutti i lavoratori italiani. Saluto il dirigente comunista, temprato a tutte le prove. Saluto l’uomo semplice, che ha saputo non perdere mai il contatto diretto, di sentimento e di passione, di sdegno per le condizioni non umane di oggi e di speranza nell’avvenire, anche con il più povero e abbandonato dei lavoratori”.

“Quanti cuori protesi verso il mio! - diceva Peppino il 10 agosto davanti ai compagni di La Spezia che con un giorno d’anticipo festeggiavano il suo compleanno - Io non sarei stato nulla. Ragazzo bracciante semi-analfabeta, figlio di braccianti analfabeti, vivente in una società in grande maggioranza di analfabeti, certo nessuno avrebbe potuto pensare, senza il movimento operaio organizzato, che qualcuno da quella massa potesse emergere”.

E Giuseppe Di Vittorio emerge, raggiungendo vette altissime.

Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Pci nel dopoguerra e presidente della Federazione sindacale mondiale. Una vita, la sua, avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda, senza però mai perdere di vista i valori più preziosi: il lavoro e la democrazia.

“Io non sono - diceva - non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana”.

Se Togliatti è il capo della classe operaia, Di Vittorio è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro, in un riconoscimento trasversale e assoluto.

“Altri parlavano meglio di Lui - diceva il giorno del funerale Pietro Nenni - Altri scrivevano meglio di Lui. Altri erano più dotti nel citare pagine di Marx o di Lenin. Nessuno ha eguagliato il patos umano della sua eloquenza e della sua azione”.

“Dio sa - scriveva un commosso Bruno Trentin alla sorella Franca nei giorni successivi alla sua morte - quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e - retorica a parte - semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre “provocatorio”, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta - e in questi ultimi tempi, spesso - questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun “sistema”, in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente “la sua ragione d’essere”. Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana “la ricchezza che poteva essere prodotta” - e che non lo era - piuttosto che la “povertà” esistente. Ed era l’idea della “ricchezza” ad entusiasmarlo. Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre “al corrente” delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir “escluso”, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea. Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno”.