I tempi del Covid sono incerti per tutti e lo sono anche per il mondo del libro. Fare piani e programmi è difficile, tanto quanto attendere il peggio o sperare nel meglio. Giuseppe Laterza è a capo di una casa editrice storica e centrale per la cultura italiana, e allo stesso tempo di dimensioni medie, non un gigante, non un grande gruppo. Ci è parso l’interlocutore migliore per aprire una luce sulle piccole e medie case editrici italiane, un tema sul quale Collettiva continuerà a lavorare nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

All’editore rivolgiamo una prima domanda d’obbligo: ottimista o pessimista?

Pessimista a breve termine e ottimista a medio-lungo termine. Pessimista a breve perché la crisi provoca conseguenze negative su tutti gli editori, ma sui piccoli rischia di portare alla chiusura. Quello che per un grande editore può essere un danno relativo, per un piccolo può diventare un danno assoluto. A un editore che non ha una riserva di catalogo né finanziaria la perdita di fatturato di tre mesi può arrecare un colpo esiziale. Le conseguenze saranno pesanti per gli editori e per i librai.

L’ottimismo nel medio e lungo periodo a cosa è dovuto?

Penso che la situazione in cui siamo farà emergere le qualità dell’innovazione, e queste le possiedono più i piccoli editori che i grandi.

Può fare un esempio?

Tanti anni fa, quando in Francia aprì Fnac, la prima grande catena di librerie, un editore prestigioso, Jérôme Lindon delle Éditions de Minuit, disse: “Dobbiamo proteggere le piccole librerie indipendenti”, e creò insieme ad altri editori un’associazione che si chiama Adelc, che appunto finanzia e aiuta le piccole librerie. Qual è la motivazione: queste sono le librerie che consentono di lanciare autori nuovi, insieme agli editori indipendenti costituiscono un laboratorio di sperimentazione vitale. L’innovazione, dunque, è una componente indispensabile, e per Laterza lo è sempre stata. È l’unica arma che ha un piccolo o medio editore per affrontare la competizione con chi è molto più forte dal punto di vista commerciale e finanziario, con chi è in grado di pagare di più gli autori, con chi magari possiede catene di librerie per promuoverli.

L’innovazione, però, richiede grandi investimenti...

Non necessariamente. Le faccio un altro esempio. Quando mio padre pubblicò il primo libro intervista, l’Intervista politico-filosofica a Lucio Colletti, nel 1975, non ci fu alcun investimento, ma semplicemente un’intuizione. Ero tornato da Londra con una copia della New Left Review che conteneva l’intervista del direttore Perry Anderson a Lucio Colletti. La feci vedere a mio padre e lui intuì che quella lunga intervista poteva diventare un breve libro. Come vede, l’innovazione in editoria non richiede grandi investimenti. Noi anni fa, grazie a un’intuizione di mia figlia Antonia, aprimmo Lea, il primo sito al mondo in cui si potevano scaricare libri come si fa con Spotify. Fu una novità assoluta, forse in anticipo sui tempi. Pensammo che si poteva creare un club attorno alla casa editrice, non creammo però un contesto assieme ad altri editori e commettemmo un errore, perché il sito non riuscì ad attrarre grandi numeri. Ma investimmo una piccola cifra, limitata, che fu riassorbita. Si tratta di avere buone idee e di avere la capacità di tradurle in libri o in innovazioni di canale. Carmine Donzelli intuì che Norberto Bobbio poteva scrivere un pamphlet dal titolo Destra e sinistra, e quel libro fu un best seller, per citare un altro esempio.

Pensa che le nuove forme di lettura e la didattica a distanza sperimentate in questi mesi modificheranno la centralità e la ‘costituzione’ del libro?

Il libro è un mezzo di espressione che ha una sua perfezione. Come diceva Umberto Eco, è come il cucchiaio. Nessuno sostituirà il cucchiaio per la funzione che svolge. Ciò detto, ben prima dell’arrivo di ebook e internet, il libro ha subito la concorrenza di altri mezzi. Il cinema, la televisione, la radio... Adesso il web e la lettura su tablet pongono la lettura in un ecosistema che consente di entrare e uscire continuamente dal libro stesso. Mezzi che hanno fatto concorrenza al libro, e che ne hanno ridotto lo spazio di fruizione, ci sono da sempre. Ma il libro conserverà una sua forza perché ha caratteristiche uniche e insostituibili.

Si riferisce all’oggetto cartaceo?

Non esattamente. Un punto fondamentale nelle scelte della Laterza è la domanda: cosa conta per un editore? Di che cosa sono orgoglioso? Sono orgoglioso di aver pubblicato dei bellissimi pezzi di carta rilegati? È il libro in sé il valore? No. L’editore non è un bibliofilo, ma un signore che ha una passione per la circolazione dei contenuti. Cosa conta? Contano le idee e l’autore. Se io voglio promuovere un’idea che mi sembra interessante, ad esempio la “società liquida” di Bauman, mi limito a pubblicare Modernità liquida e considero che il mio successo unico e possibile sia quello di venderne un numero elevato di copie, o considero un successo anche il fatto che Bauman parli di fronte a mille persone in un festival di filosofia, e che la sua idea arrivi a molte persone in più? Quello non è un successo? Il mio lavoro non l’ho fatto anche portando le idee di Bauman a persone che non hanno letto il suo libro?

Indubbiamente sì. Dunque un editore moderno deve fare molte cose, tra cui ‘anche’ libri?

Restiamo all’esempio di Bauman. Il mio problema, come dicevo, è quello di far circolare il più ampiamente possibile le sue idee, trasformarle in senso comune con tutti i mezzi possibili, e certamente anche con un libro. Nel volume lo posso fare in maniera diversa e migliore che altrove. Non è un caso che Modernità liquida sia prima di tutto un libro, perché in quella forma Bauman ha potuto svolgere la sua idea con una complessità e ricchezza di argomentazione e immaginazione non realizzabili in un contenitore diverso. Ma in una conferenza in presenza Bauman aveva una suggestione più forte. Il fatto che un ragazzo di sedici anni, assieme a moltissimi suoi coetanei, abbia ascoltato Bauman e si sia lasciato influenzare dalla sua presenza ieratica, dalla sua figura fisica, dal suo carisma, è un processo che rafforza le idee stesse di Bauman, perché esiste un’intelligenza emotiva che consente di trasmettere concetti. Questo non lo devo disprezzare. Non è un trucco. Io non ho una concezione regale del libro, lo considero uno strumento formidabile, quello che Laterza usa più di tutti, ma poi devo anche trovare capacità di espressione diverse e alternative che si affianchino al libro.

Questo è anche il senso del cantiere che avete lanciato col Mondo dopo la fine del mondo?

Sì. Il cantiere è nato mano a mano, come spesso succede, e non a tavolino in un progetto costruito tutto insieme. Un collaboratore e il direttore editoriale avevano pensato alla possibilità di fare un libro che registrasse e analizzasse l’incredibile vicenda della pandemia e del lockdown. Stavo pensando la stessa cosa, ci siamo confrontati, abbiamo discusso le nostre idee e alla fine siamo arrivati a un’ipotesi molto convincente, e abbiamo trovato un bel titolo, Il mondo dopo la fine del mondo, che è stato peraltro importante per ispirare il progetto stesso.

Abbiamo buttato giù un elenco di autori possibili, sperando che accettassero. Hanno accettato quasi tutti la nostra proposta. Ma quando abbiamo iniziato a leggere i loro testi ci siamo accorti che avevano una fortissima adesione a una realtà che a sua volta, però, si modificava rapidamente. Da qui a tre, quattro mesi - i tempi fisiologici per la pubblicazione di un libro - avremmo rischiato di trovarci con testi già bisognosi di aggiornamento. Per questo abbiamo deciso di farli uscire subito, di farne materia e motivo di discussione pubblica e di circolazione tramite tutti i mezzi multimediali a disposizione. Poi, quando il libro uscirà a ottobre in formato digitale, avremo modo di aggiornarlo. E organizzeremo anche un festival web, non in presenza a causa della pandemia. Insomma, abbiamo aperto un cantiere che, come dice la parola, si sviluppa nel tempo. E ci siamo resi conto che può diventare un modello editoriale, sebbene certamente si applicherà solo a una piccola parte dei nostri libri.

Facciamo un passo a lato. Parliamo di questa crisi e del ruolo che può avere il libro di testo scolastico. Quanto aiuta questo comparto a sostenere una casa editrice? E quanto potrà resistere nel medio e lungo periodo di fronte all’impatto di grandi gruppi come Pearson, Zanichelli e Mondadori/Rizzoli?

In Italia in tutti settori, purtroppo, c’è una fortissima concentrazione. Quando l'Antitrust ha denunciato le concentrazioni editoriali, non si è intervenuti nel modo migliore. È stato un intervento molto limitato, e Rizzoli per gran parte si è ritrovata assorbita da Mondadori, che oggi ha una posizione sul mercato italiano senza paragoni in nessun altro paese occidentale. Siamo nello scandalo. Una casa editrice che ha una porzione di quasi tre volte il proprio immediato concorrente: il gruppo Gems fattura un terzo di quanto fattura Mondadori.

Nella scolastica la situazione è un po’ meno grave, perché Zanichelli ha una posizione di mercato relativamente maggiore rispetto a Mondadori. Ma resta difficile. Per un piccolo editore di testi scolastici il segreto è sempre l’innovazione. Quando mio padre aprì il comparto scolastico la nostra possibilità di contrastare quella che già allora era una realtà di grandi gruppi si legò ad alcuni titoli, come il manuale di storia di Villari, che cambiarono il modo di fare scuola e insegnare nei rispettivi settori. Nel tempo Alessandro Laterza ha dato lo stesso impulso. Grazie all’innovazione che abbiamo introdotto negli apparati didattici siamo riusciti a mantenere le posizioni in un mercato difficilissimo, perché le reti commerciali dei grandi gruppi sono sovrastanti, hanno promotori unici, i cosiddetti monomandatari, che hanno una possibilità di visitare i docenti molto superiore alla nostra. E questo è un problema enorme. Noi cerchiamo di sopperire con le idee. Ogni anno ci inventiamo libri nuovi e proviamo a tenere testa. Finora ci siamo riusciti. Negli ultimi anni abbiamo chiuso bilanci molto positivi. Ma è una battaglia continua.

Ancora l’innovazione. E’ davvero il leitmotiv di questa chiacchierata.

E’ inevitabile. Ogni anno devi cambiare e innovare. In Laterza, negli ultimi anni, abbiamo perseguito anche una politica di ringiovanimento. Oggi siamo nella stessa situazione che incontrai in casa editrice quando entrai negli anni Ottanta. Oggi come allora la maggior parte dei nostri collaboratori sono giovani. Nella sede romana nove su 19 hanno trent’anni, e sono tra l’altro tutte donne. Credo sia la migliore garanzia per il nostro futuro.