Dal Medio Oriente alle contraddizioni della società americana, passando per la crisi della sinistra italiana e lo strapotere televisivo che investe il paese: alla Mostra del cinema di Venezia si impongono i film impegnati nel sociale. Se il più importante festival italiano resta una vetrina della tecnica, infatti, tradizionalmente non ha mai trascurato l’aspetto dei contenuti. Per ricordarlo basta scorrere il palmares, anche negli ultimi anni: citiamo per tutti nel 2004 la vittoria de Il segreto di Vera Drake, con una lunga polemica sul tema dell’aborto, o il premio del 2005 a Brokeback Mountain che rileggeva il western in chiave omosessuale. Anche nel 2009 la 66esima edizione della Mostra (2-12 settembre) ha confermato questa tendenza, a cominciare dal primo premio: la giuria presieduta da Ang Lee ha assegnato il Leone d’oro a Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz.

Il film, indicato all’unanimità come favorito dalla prima proiezione, si svolge nel giugno 1982 durante la prima guerra tra Israele e Libano: un gruppo di soldati israeliani viene inviato a perlustrare un piccolo centro libanese dopo un bombardamento. Ma perde il controllo della missione e deve affrontare la notte in territorio nemico, all’interno di un carro armato. Basandosi sulla propria esperienza personale, il 47enne regista di Tel Aviv ha vinto all’esordio giocando essenzialmente due carte: il senso di isolamento della comunità israeliana, simboleggiata dai giovani soldati prigionieri in un luogo chiuso, e l’assurdità generale dei conflitti che riguardano quella zona del mondo. La sua opera uscirà in Italia nel 2010 distribuita dalla Bim. Nella lista dei premi, poi, è impossibile trascurare il riconoscimento per la migliore sceneggiatura (premio Osella) a Life during wartime di Todd Solondz: il regista indipendente, tra i più discussi negli Usa, racconta le vicende di una famiglia americana di oggi, come dice il titolo “in tempo di guerra”, sottolineando i lati più nascosti e inquietanti. Tra questi, la malattia del padre che ha una pulsione irresistibile per la pedofilia. La metafora del marcio sotto la superficie è chiara, dunque, ma ha convinto la giuria per la sua profondità e accuratezza. Stessa provenienza ma stile molto diverso per Capitalism: a love story di Michael Moore: il documentarista d’assalto, che stavolta non ottiene premi, nel primo lavoro dell’era Obama si sofferma sulle ragioni della crisi economica, con il consueto registro aggressivo e ironico.

Dall’altra parte dello scenario politico c’è l’America Latina, con due documentari fuori concorso: South of border di Oliver Stone, sulla figura del presidente venezuelano Hugo Chavez, e L’oro di Cuba di Giuliano Montaldo, concentrato sui 50 anni della rivoluzione di Castro. Analisi e riflessioni sullo stato della società toccano anche l’Italia; e proprio dal Lido è partito il caso di Videocracy (Evento speciale), il cui trailer è stato censurato da Rai e Mediaset perché ritenuto critico nei confronti del governo. Il documentario è firmato da Erik Gandini, 42enne regista di Bergamo trapiantato in Svezia, che vuole illustrare la situazione italiana ai connazionali e all’estero. Ricostruisce le circostanze che hanno portato alla nostra “videocrazia”, offrendo il quadro di un paese comandato dalla Tv dal lato sia mentale che politico. Ancora più diretto Le ombre rosse di Citto Maselli (Fuori concorso): attraverso la storia di un centro sociale, strumentalizzato da intellettuali di sinistra, vuole dimostrare la distanza tra l’attuale opposizione e la gente comune. Il risultato è una sorta di allegoria sull’immobilismo interessato di una classe politica, con particolare riferimento alla sconfitta elettorale del 2008. Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli ha vinto la sezione Controcampo italiano: un altro premio impegnato, dato che l’intreccio segue il percorso di formazione di una ragazza di sinistra a fine anni ’50. Quando, dopo il lancio dello Sputnik, si pensava che l’Unione Sovietica potesse arrivare prima sulla Luna.