Con lo smart working, il cui ricorso si sta affermando in Italia, il lavoro sconfina dai perimetri dei capannoni, degli stabilimenti tradizionali, dei palazzoni, attorno ai quali si sono sviluppate intere città, mascherando precarietà, lavoro sommerso e soprattutto il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza e per la prevenzione. Per il sistema imprese, invece, si tratta di una modalità di lavoro innovativa, basata su un alto livello di flessibilità, che interessa le tecnologie digitali, policy organizzative (orari e sedi di lavoro), spazi fisici aziendali e stili di vita.

Ma dietro la presunta libertà di esercitare la propria attività ovunque, si cela la volontà di aggirare le norme contro gli infortuni e le malattie professionali, riconducendo la causa di un eventuale incidente esclusivamente sulla “cattiva condotta” del lavoratore. “Un’inaccettabile modalità che finisce per esonerare le aziende da qualsiasi responsabilità – denuncia Silvino Candeloro, della presidenza Inca –, riducendo di conseguenza anche l’accessibilità per i lavoratori alle tutele Inail”. 

Non è certamente un caso se i dati ufficiali indicano una costante riduzione degli infortuni sul lavoro negli ultimi anni e una crescita, seppur contenuta e sottostimata, delle malattie professionali; in realtà, sono due facce della stessa medaglia che tracciano un quadro per nulla rassicurante. Di lavoro si muore ogni giorno: prova ne sono i tanti eventi quotidiani che avvengono lontano dai riflettori delle cronache giornalistiche. Quelli che fanno crescere l’ansia e l’incertezza nel futuro tra chi si sente dimenticato, lasciato solo davanti al dramma della disoccupazione o della precarietà del lavoro.

In Italia, sono 60 mila le denunce di malattie professionali, ma solo nel 34 per cento dei casi l’Inail riconosce il nesso causale con il lavoro. “Una percentuale molto bassa – spiega ancora Candeloro – che indica come sia difficile il percorso per accedere alle tutele antinfortunistiche previste per legge e che getta più di qualche ombra sull’azione di tutela dell’Inail”. Un rappresentante alla sicurezza della Fiom racconta che alla Fincantieri di Ancona l’istituto tende a respingere tutte le richieste di riconoscimento del danno da lavoro, mentre allo stabilimento di Monfalcone le domande sono prevalentemente accolte, nonostante si tratti della stessa tipologia di lavoro e delle stesse patologie.

Complice di questa sconfortante situazione anche i tanti contratti di appalto e subappalto, che rendono difficile l’individuazione delle cause di infortunio o di malattia professionale, per non dire delle responsabilità aziendali (alla Fincantieri di Ancona operano 250 società, alle quali corrispondono contratti diversi). E lo smart working sembra ispirare anche le ultime iniziative legislative, in senso peggiorativo. Ad attirare l’attenzione dei sindacati è il pacchetto di modifiche, per iniziativa di Maurizio Sacconi, con il quale si vogliono rivedere al ribasso le norme sulla sicurezza e prevenzione del decreto legislativo 81/08, laddove, nel nome della semplificazione, si stabilisce la facoltà per le aziende di autocertificare il rispetto o meno delle norme sulla sicurezza e prevenzione, sollevandole da ogni responsabilità di fronte a eventuali incidenti e riducendo così la possibilità di sanzioni.

Per la Fiom ciò equivarrebbe a uno svuotamento del Testo Unico, che prende spunto da ciò che è già avvenuto in Canada negli anni trenta e quaranta, quando H. W. Heinrich, sovrintendente aggiunto della divisione di Ingegneria e di Ispezione della società di assicurazione Traverlers, esaminando le domande di risarcimento per gli incidenti sul lavoro, concluse che l’88 per cento dei casi era da attribuire “ad atti pericolosi causati dai lavoratori stessi”. “C’è un’inquietante equivalenza tra ciò che è stato definito in Canada, più di settant’anni fa – sottolinea Maurizio Marcelli, responsabile salute e sicurezza delle tute blu della Cgil – e quanto si vorrebbe imporre nel nostro Paese, anche alla luce delle nuove forme di lavoro”. 

Sono queste le ragioni che spingono Inca e Fiom a rilanciare con urgenza il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, partendo intanto dalla necessità di valorizzare il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza, a cominciare dalla loro formazione, dentro e fuori la fabbrica, e di rivedere le modalità con cui sono redatti i Documenti di valutazione dei rischi, per renderli davvero aderenti alle condizioni reali di lavoro e farli diventare parte integrante del contratto nazionale. L’azione congiunta di sindacato e patronato è importante: perché tutela individuale e collettiva devono diventare un terreno unico su cui riprendere la contrattazione, individuando gli obiettivi in grado di sconfiggere l’idea di un ritorno al passato e riaffermare la dignità del lavoro, dovunque lo si eserciti.

Ma sullo specifico versante della tutela individuale, è importante che si affronti anche il problema del reinserimento dei lavoratori inidonei. “C’è un nuovo regolamento Inail in proposito – chiarisce Candeloro –. Dobbiamo usarlo per inserirci, senza lasciare solo il lavoratore nel confronto con l’azienda. Dobbiamo farlo candidandoci, insieme ai sindacati di categoria, per essere rappresentanti degli interessi del mondo del lavoro ed evitare che lo strumento dell’inidoneità continui a essere usato come arma di ricatto. Il diritto alla salute è un diritto inalienabile del lavoratore e, dunque, non disponibile”.