Il presidente Draghi ha pubblicamente preso posizione sul caso Grecia in relazione al piano di acquisti di titoli governativi dell’eurozona appena avviato. Nonostante la situazione di grande difficoltà del governo di Atene nel rifinanziamento immediato del debito (500 milioni appena sborsati in extremis al Fondo monetario internazionale), la Bce ha deciso che non comprerà sul mercato secondario i titoli del debito greco; Draghi si limiterà a garantire la liquidità immediata per le banche attraverso il sistema dell’Ela (Emergency liquidity assistance).

Vi sono diverse ragioni addotte da Draghi per giustificare questo divieto: sicuramente il rating della Grecia è troppo basso, ed è vietato per statuto l’avvio del Qe verso paesi che sono sottoposti a una revisione da parte della Troika. Il motivo principale è però legato al fatto che oltre il 60% del debito greco è nelle mani delle istituzioni europee (fondo Efsf e Bce), mentre il limite di titoli acquistabili da parte della Banca centrale è attualmente del 33%. Disco rosso dunque per il paese ellenico, che sta sperimentando attualmente una crescita dei tassi sul debito che li ha portati a sforare il 10% in poco più di mese.

A questo punto, tuttavia, un quesito sorge legittimo: ma il Qe sarebbe veramente così utile per le finanze greche? Sull’argomento non mancano i dubbi; il sistema bancario greco ha in mano soltanto 22 miliardi di titoli governativi, mentre 45 sono nelle mani di investitori esteri, per un totale di 67 miliardi attivamente scambiati sui mercati; considerando il limite del 25% su ogni emissione imposto dalle regole del Qe, si deduce che a malapena una quindicina di miliardi potrebbero essere oggetto degli acquisti Bce.

Un bazooka troppo limitato per arrestare la crescita dello spread nello stato attuale. Se si pensa che, allo stesso tempo, il sistema bancario greco ha subito un deflusso di depositi proprio di 15 miliardi solo negli ultimi 30 giorni, è assai difficile immaginare un pass through degli effetti del Qe all’economia reale attraverso un aumento dei prestiti al settore privato. Ma il tema del trasferimento degli effetti del Qe all’economia reale è assai dibattuto anche a livello dell’intera eurozona.

È vero che gli acquisti provocheranno (lo stanno già facendo) un ulteriore riduzione dei rendimenti sui titoli del debito pubblico, con benefici per le casse dei governi in termini di spesa per interessi sulle nuove emissioni e aumento dei profitti retrocessi dalle banche centrali nazionali. Tuttavia, visto il già bassissimo livello dei tassi di interesse, si tratterà di benefici secondari. Il principale intento della Bce è quello di liberare delle risorse finanziarie all’interno del sistema bancario per riavviare i prestiti alle famiglie e alle imprese; come dovrebbe funzionare questo meccanismo di trasferimento (pass through)?

In linea teorica in questa maniera: vendendo alla Banca centrale europea titoli governativi ai prezzi di mercato, le banche ottengono della liquidità. Queste risorse finanziarie, se lasciate nel conto di deposito Bce attualmente subiscono un’erosione rappresentata dal tasso nominale negativo dello 0,2%; di conseguenza, le banche avrebbero tutto l’interesse a reimpiegare subito la liquidità attraverso nuovi investimenti, anche verso l’economia reale.

In questo processo ci sono diversi punti interrogativi: sicuramente il tasso negativo imposto dalla Bce scoraggia i semplici depositi (ricordiamo invece che i prestiti Ltro, Long term refinancing operation, ricevuti all’apice della crisi nel 2012 rimasero inattivi su tali conti per molti mesi). Le banche potrebbero però decidere di investire nell’acquisto di titoli di Stato di nuova emissione, oppure di prendere posizione sul mercato azionario.

A livello regolamentare ci sono numerosi incentivi a detenere titoli di Stato in portafoglio; questi investimenti infatti non comportano alcun assorbimento di capitale e quindi aiutano le banche a soddisfare i rigidi criteri stabiliti dalla normativa di stabilità di Basilea 3. Al contrario, i prestiti all’economia reale comportano degli accantonamenti di risorse per far fronte a eventuali sofferenze e/o crediti incagliati e quindi sono relativamente più onerosi per le banche.

Si tratta di un circolo vizioso “titolo chiama titolo” da non sottovalutare: nel 2012 anche grazie ai rendimenti dei titoli di Stato molto elevati (lo spread era a quasi 500 punti), le banche hanno investito una gran parte della liquidità a basso costo ottenuta dalla Bce proprio nell’acquisto di nuovo debito, spiazzando completamente l’economia reale. Per esempio, l’Italia ha ottenuto dai Vltro (cioè i prestiti triennali agevolati all’1% erogati tra fine 2011 e inizio 2012) 270 miliardi di euro, ma nel biennio successivo questi fondi hanno supportato l’acquisto di titoli di Stato per oltre 220 miliardi.

Certo, nel 2015 il quadro è parzialmente cambiato: ora i rendimenti sui titoli sono assai più bassi (lo spread è intorno ai 100 punti) e potrebbe essere difficile ottenere dei capital gains attraverso l’acquisto di titoli di nuova emissione. Stime recenti considerano per il periodo di durata del Qe (fino a settembre 2016) un ammontare netto di nuove emissioni nell’Eurozona poco superiore ai 400 miliardi, mentre il Qe arriva a cubare oltre 1.100 miliardi di nuova liquidità.

Quindi, la corsa ai titoli obbligazionari sperabilmente non spiazzerà necessariamente in toto i prestiti all’economia reale. Per Italia e Spagna però gli ostacoli nella trasmissione all’economia reale sono maggiori, tenuto conto che sono ancora indebitate verso la Bce rispettivamente per 110 e 80 miliardi di euro. I due paesi hanno infatti rinnovato alla scadenza parte dei Vltro e rischiano quindi di trovarsi a dover utilizzare la liquidità riveniente dal Qe in larga parte per ripagare tali debiti, alimentando un circolo vizioso “titolo chiama liquidità” ancora più problematico per la trasmissione all’economia reale.

Va però anche considerato che le banche potrebbero ben investire le nuove risorse in titoli rischiosi sul mercato azionario, cercando di cavalcare il trend ascendente delle Borse. L’esperienza storica relativa ai Qe di Usa e Giappone, ci dice che i programmi di acquisto di titoli governativi invariabilmente spingono verso l’alto i prezzi delle azioni per via dell’ingresso massiccio di nuova liquidità, tant’è che si parla spesso di mercati “drogati” dall’attività delle banche centrali. È difficile quantificare al momento l’effetto spiazzamento sui prestiti all’economia reale provocato dal mercato azionario: negli Usa c’è stato un raddoppio della capitalizzazione di borsa, ma i prestiti al settore privato sono aumentati di 1.200 miliardi (+18%) negli ultimi 5 anni.

In Giappone invece l’effetto spiazzamento è stato più prominente: dall’avvio del Qe i mercati hanno messo a segno un +100%, mentre i prestiti alle imprese si sono limitati a uno striminzito +5%. Questo dipende anche dal fatto che la Bank of Japan ha effettuato una politica monetaria più aggressiva, acquistando direttamente fondi di investimento sul mercato azionario: è chiaro che per le banche private giapponesi diventa molto più appetibile investire su mercati dove c’è il back-up implicito della Banca centrale contro eventi imprevisti (il rischio di crack improvvisi sostanzialmente si azzera).

Nella prima settimana del Qe la Bce ha comprato circa 10 miliardi di euro, mentre la risposta sui tassi di interesse è stata molto forte; i rendimenti sono scesi talmente tanto che la Bundesbank ha iniziato a preoccuparsi di non avere abbastanza titoli a rendimento positivo da acquistare, visto che oltre il 40% del debito tedesco è oramai a tasso negativo. Tuttavia, si parte da una situazione congiunturale dell’economia molto debole: in Italia i prestiti alle imprese sono scesi di oltre il 4% negli ultimi due anni e l’ammontare delle sofferenze bancarie supera i 180 miliardi di euro.

* Docente di Finanza matematica all’Università Bocconi di Milano