“I modesti segnali di ripresa della nostra economia, avvenuti a inizio 2015, si sono assai affievoliti successivamente. D’altra parte, quella crescita faceva perno quasi solo sulle esportazioni e quindi è inevitabile che risenta dell’indebolimento della crescita mondiale, registrato negli ultimi mesi e confermato, al ribasso, dalle previsioni del Fmi. Non a caso, puntando sull’austerity, l’Europa continua ad essere l’area economica mondiale a più basso sviluppo, e al suo interno, l’Italia continua ad avere il tasso di crescita più basso fra tutti i paesi più industrializzati. Tanto che anche l’ultimo Def del Governo è stato rivisto al ribasso: su questo, vedo che non è previsto nulla per i rinnovi dei contratti pubblici e per le pensioni”. Così Vincenzo Colla, segretario generale Cgil Emilia Romagna, ha iniziato la sua relazione al convegno dal titolo "Disoccupazione e lavoro dentro la crisi più lunga", dedicato al legame tra recessione, Jobs act e non ripresa, che si è tenuto oggi a Bologna (ascolta il podcast su RadioArticolo1).

“Il nostro Paese ha un problema di poca produttività e scarsa innovazione – ha spiegato il dirigente sindacale –, e l’unica strada per superarlo è quella degli investimenti pubblici e privati. Altre scorciatoie sono illusorie e rischiano di essere dannose: come quella, d’impronta bocconiana, secondo cui per aumentare produttività è sufficiente legare ad essa, azienda per azienda, le dinamiche salariali. Penso sia priva di riscontri concreti, e ridimensionare il ruolo dei contratti, magari con l’ausilio di un salario minimo legale, allineato al livello più basso, è controproducente, perché riduce le dinamiche salariali in una realtà produttiva caratterizzata da migliaia di piccole e medie imprese. Al contrario, come ha detto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, l’aumento dei salari reali è condizione essenziale per uscire dalla trappola della deflazione. Oltretutto, spostare sul livello aziendale tutto l’asse delle dinamiche salariali, peggiorerebbe le cose alimentando la tendenza a una chiusura corporativa, purtroppo già diffusa, a scapito di interessi sociali e collettivi. Il ccnl è uno strumento straordinario di solidarietà, e se s’indebolisce aumenteranno i comportamenti individuali con una competizione al ribasso sul costo del lavoro, creando una giungla tra imprese, anziché un’idea di sviluppo con regole condivise”.

“In merito alla trattativa sul modello contrattuale – ha proseguito l’esponente Cgil –, credo sia giunto il momento che il governo convochi formalmente le parti, esponendo ufficialmente le proprie valutazioni. Il confronto è fondamentale, anche perché una crescita vera e stabile dell’economia e un aumento dell’occupazione non verrà mai da interventi legislativi sul mercato del lavoro, neanche se fossero i migliori possibili. Nel 2015 gli occupati in Italia sono cresciuti dello 0,8%, ma si tratta di un’inezia per un Paese che ha oltre tre milioni di disoccupati: certo, la forte decontribuzione ha fatto salire gli avviamenti con contratto a tempo indeterminato, ma quando un lavoratore può essere licenziato in qualsiasi momento, anche senza giusta causa, pagandogli una modesta indennità, è davvero effimera la crescita occupazionale, tanto che nel 2016 è bastato si riducessero i vantaggi per le imprese che già si registra un’inversione di tendenza a favore del tempo determinato. Se poi a ciò aggiungiamo l’ulteriore forte crescita dei voucher, arrivati a 90 milioni, pari a 300.000 posti di lavoro, concludiamo dicendo che non solo il precariato non è stato sconfitto, ma si è sviluppato nelle sue forme più odiose, quelle prive di tutele, maggiormente contigue al lavoro nero. Allora la domanda è: valeva la pena destinare sette miliardi e mezzo di soldi pubblici nel 2015 e impegnarne altrettanti nei prossimi anni, sommando sgravi contributivi e deduzioni Irap, per ottenere un risultato così modesto rispetto agli obiettivi dichiarati?”

“In Emilia Romagna – ha aggiunto il sindacalista –, il mercato del lavoro parte da una condizione migliore rispetto al contesto nazionale, e tuttavia le tendenza evolutive non sembrano poi molto diverse: nel 2015 un miglioramento, sia pur lieve, c’è stato, ma anche qui continua ad aumentare il precariato, con un trend di crescita addirittura superiore alla media italiana, per quanto riguarda i voucher. Ma il vero problema che voglio evidenziare è che non riusciamo a dare risposte ai giovani disoccupati, vediamo un Paese che continua a stentare, dove cresce solo il lavoro povero, poco valorizzato e retribuito, un Paese che non investe sulle attività produttive e sulle nuove tecnologie. Un Paese del genere non ha futuro. Qualche giorno fa, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha pronunciato una frase che dovrebbe diventare un mantra: nonostante sia la generazione meglio istruita di sempre, i giovani di oggi stanno pagando un prezzo troppo alto per la crisi. Per evitare di creare una generazione perduta, dobbiamo agire in fretta. Anche perché i dati ci dicono che l’ultimo anno è stato il peggiore per la fascia d’età fra i 25 e i 34 anni: un milione e settecentomila occupati in meno, pari - 29,4 %, quasi un terzo. Per noi, questa è la priorità assoluta e deve diventarlo sempre di più. E quando parliamo di contrattazione inclusiva, di nuovo Statuto dei lavoratori, è perché vogliamo far tornare prioritario il valore del lavoro nell’interesse generale del Paese”.

“Altrettanto prioritario è un intervento sul sistema pensionistico – ha rilevato ancora Colla –. Quello attuale, crea un autoavvitamento sociale tra chi è certo di non riuscire ad avere una pensione dignitosa e chi non riesce a reggere fisicamente e psicologicamente sul lavoro in attesa di una finestra d’uscita: così rischiamo la più grande cesura del patto generazionale nel sistema di welfare nel nostro Paese, ed è evidente che dietro l’enorme difficoltà di accesso dei giovani al mercato del lavoro c’è anche il blocco rappresentato da milioni di persone che sono state costrette dalla legge Fornero ad allungare i tempi di permanenza al lavoro. Introdurre più flessibilità nei criteri di uscita, quindi, risponde anche a tale esigenza: una flessibilità sostenibile, e non si tratta solo di rispondere a un’emergenza sociale, se pensiamo al bisogno d’innovazione che hanno le nostre imprese ci accorgiamo che potrebbe essere persino una misura di politica industriale. È una forzatura dire questo? Forse, ma allora qualcuno ci deve spiegare chi fa innovazione nell’impresa senza le nuove generazioni”.

“Nel contempo – ha concluso il leader della Cgil emiliana –, un altro filone d’intervento indispensabile per rimettere in moto il Paese sono gli investimenti pubblici, come noi abbiamo ampiamente argomentato con la nostra proposta di Piano per il lavoro. Basta con l’ideologia che affida solo all’impresa privata la promozione della crescita, perché non funziona. Lo riconoscono ormai anche tanti economisti: ci vogliono ‘capitali pazienti’, che non guardino al ritorno economico di breve periodo, ma che misurino il loro successo sui tempi lunghi, perché le grandi innovazioni hanno bisogno di tempi lunghi per dare risultati, ma sono anche quelli da cui dipende la fortuna di un territorio o di un Paese: mi riferisco a ricerca e innovazione, alla salvaguardia dell’ambiente, alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio artistico e culturale, alle energie alternative, alla chimica verde, ai nuovi materiali, al trasporto sostenibile, al biomedicale, ai big data. Un Paese come il nostro, con enormi possibilità, ha bisogno di creare anche un’identità manifatturiera industriale. Ma per fare tutto questo, ci vogliono tante risorse e capitali a disposizione”.

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