Settant'anni fa l'Italia era libera. Quarant'anni fa, il 27 aprile del 1975, Rassegna Sindacale (che nell'occasione uscì assieme a Conquiste del lavoro e a Lavoro italiano, i periodici della Cisl e della Uil) dedicava un dossier a cura di Aldo De Jaco alla Resistenza e alla Liberazione. Al contributo dei lavoratori a quelle giornate storiche. Quaranta pagine fitte di storie, ricostruzioni e bellissime immagini. Ne riproponiamo una parte in questo speciale. Un modo per rileggere e celebrare i fatti del '43-'45. Ma anche un documento storico in sé: una lettura della Resistenza che ci arriva direttamente dagli anni Settanta.

Quando s'apprese la notizia, attraverso la radio, che il cavaliere Benito Mussolini era stato arrestato e Badoglio lo aveva sostituito — non si conoscevano in quel momento tutti gli intrighi, i contrasti e le paure che avevano portato a quel "modo" di liquidazione del fascismo e al proclama del «la guerra continua» —, quando si sparse per l'Italia l'eco degli avvenimenti di Roma tutti gli italiani, nelle fabbriche, negli uffici, nelle piazze, nelle campagne, ne trassero subito la logica conseguenza: arrestato Mussolini era finito il fascismo e finita anche la sua guerra. Paesi e città si riempirono di gente che manifestava, una folla di mani si levò a svellere i simboli della dittatura, ci si abbracciava per strada, si cantava assieme, si rideva... I fascisti avevano nascosto divise e camicie nere ma nessuno pensava in quel momento a vendicare i venti anni di sofferenze, tutti pensarono invece a come uscirne e dunque a come uscire subito dalla guerra, a come riappropriarsi della propria patria semidistrutta. Dal 26 al 28 luglio gli operai, in particolare al nord, scesero in sciopero generale, riempirono le piazze per festeggiare la caduta del fascismo e chiedere pace. E la monarchia e il suo governo di militari ebbero paura di questi cortei, di questa folla in festa e diedero ordine di piantonare e difendere gli uffici pubblici — comprese le sedi fasciste - e di sparare sui manifestanti se si avvicinavano.

Citiamo due soli episodi: a Reggio Emilia gli operai delle «Reggiane» avevano accolto la notizia della caduta del fascismo con una manifestazione che rivendicava la fine della guerra; fasci, insegne littorie, busti di Mussolini: queste erano state, il 26 e il 27 luglio, le «vittime» dei manifestanti. Il 28 mattina gli operai aprivano ancora una volta i cancelli della fabbrica per marciare verso il centro della città; questa volta però non avranno via libera: un reparto di militari appostato lì davanti improvvisamente li fronteggia; al rifiuto dei soldati di sparare l'ufficiale (un fascista) punta una mitragliatrice e fa fuoco nel mucchio: otto morti e 30 feriti. Nelle stesse ore a Bari un corteo di giovanissimi — studenti, operai — si dirigeva verso le carceri dove erano rinchiusi antifascisti come Tommaso Fiore, Calogero, De Ruggiero. Passarono vicino alla sede del fascio che era presidiata da una compagnia di soldati, urlarono, fischiarono. In obbedienza agli ordini del generale Boatta («Considerare qualsiasi manifestazione come azione di nemici e rispondere col fuoco») il sottotenente comandante della compagnia fece aprire il fuoco: morirono falciate dalle pallottole venti persone (fra cui Graziano, figlio diciottenne di Tommaso Fiore); nessuno ha mai contato i feriti.

Dunque, mentre il popolo italiano chiedeva la fine della guerra, il governo (che si atteneva ufficialmente alla parola d'ordine « la guerra continua ») chiedeva di non essere turbato da tumulti e opposizioni. E uccideva i «disturbatori». E' chiaro questa situazione non poteva suggerire alle forze antifasciste che si andavano riorganizzando e raccogliendo in comitati unitari un atteggiamento di moderazione e di collaborazione con la monarchia e i suoi fiduciari governativi. Tuttavia anche nel governo c'era chi voleva avviare un trapasso di poteri fra il fascismo ormai morto (o meglio: paralizzato dalla paura) e l'antifascismo in gran parte nella persona dei suoi esponenti più responsabili — ancora in carcere o al confino.

Così si giunse, il primo agosto, al colloquio fra il ministro Piccardi e il sindacalista antifascista Bruno Buozzi, il leader della federazione dei metallurgici e deputato socialista che nel '26 aveva preso la via dell'esilio e nell'esilio aveva curato la riorganizzazione di una centrale sindacale. Piccardi chiese a Buozzi di assumere la direzione — come commissario —della struttura, ancora formalmente in piedi, del sindacato fascista dei metallurgici. «Sì — rispose Buozzi — ma insieme a me ci devono essere i comunisti e i cattolici».

Questa risposta non è solo suggerita dall'istinto unitario di un sindacalista che nel corso della sua vita ha potuto molte volte constatare i guasti, le crisi, i drammi che derivano dalla mancanza di unità; è anche la risposta di uno che alla ricostruzione dell'unità sta lavorando da tempo. Da quando? In un articolo su Buozzi — trucidato alla periferia di Roma dai tedeschi in fuga — Giuseppe Di Vittorio ha ricordato come il discorso sull'unità si sia intrecciato col leader dei metalmeccanici nelle condizioni più disperanti: mentre, nel febbraio del '41, tutti e due erano chiusi nel carcere parigino della «Santé», sotto il controllo delle SS tedesche che occupavano la città. L'anno dopo, sotto sorveglianza speciale, Buozzi era a Torino (Di Vittorio invece era stato consegnato ai fascisti e deportato a Ventotene). E a Torino Buozzi tornava a intrecciare il discorso unitario, questa volta da una parte col comunista Roveda, altro sorvegliato speciale, e dall'altra col cattolico Achille Grandi (già leader della confederazione «bianca» nel primo dopoguerra) che stava intanto intessendo le fila (con riunioni camuffate da pellegrinaggi religiosi) di un nuovo sindacalismo cattolico. E dunque — dirà Di Vittorio parlando di Buozzi e dell'unità sindacale — «Il terreno era diggià arato fra di noi».

In definitiva nell'agosto del '43 i sindacalisti antifascisti accettano di gestire, come commissari, le centrali fasciste: Grandi, Quarello e Vanoni per la DC, Buozzi e Lizzadri per il PSI, Roveda e poi Di Vittorio — che esce dal confino a fine agosto — per il PCI, De Ruggiero per il partito d'azione, Casali per la democrazia del lavoro. Nello stesso tempo i sindacalisti delle diverse correnti «storiche» del movimento, tornando così ad agire alla luce del sole, si costituiscono in confederazione e dichiarano (è il 15 agosto): «considerando che la funzione a cui siamo chiamati ha uno stretto carattere sindacale che non implica nessuna corresponsabilità politica, dichiariamo di accettare le nomine nell'interesse del Paese e dei nostri organizzati, per procedere alla liquidazione del passato e alla sollecita ricostruzione dei sindacati italiani, che tenga conto delle tradizioni del vecchio movimento sindacale e tenda ad avviare al più presto gli organizzati a nominare direttamente i propri dirigenti ». Al governo i sindacalisti pongono poi due richieste: 1) liberazione immediata di tutti i prigionieri politici; 2) azione altrettanto immediata per l'armistizio con gli angloamericani.

Il governo prende impegni sul primo punto e non si pronunzia sul secondo mentre proprio in quei giorni gli alleati lanciano sull'Italia intera — ma soprattutto sulle zone industriali del nord — una ondata terrificante di bombardamenti avendo come scopo, più che quello di distruggere un potenziale militare ormai inesistente, di costringere l'Italia alla resa col terrore. Per protesta contro il proclama del « la guerra continua » ancora formalmente valido, gli operai del nord incrociano le braccia il 19 agosto ponendo delle rivendicazioni salariali insieme alla rivendicazione politica generale di tutto il popolo italiano: cessare la guerra, che fra l'altro ormai si risolve in un massacro e nella sola prospettiva, per il nostro paese, di diventare campo di battaglia degli eserciti contrapposti tedeschi ed alleati.

E' di quei giorni il viaggio al nord del ministro Piccardi insieme ai «commissari» Buozzi e Roveda. Si tengono a Torino e a Milano tumultuose riunioni con i rappresentanti dei lavoratori, Buozzi e Roveda non parlano ma certo la loro presenza aiuta Piccardi a giungere a un accordo e a far cessare gli scioperi. Gli operai ottengono così, oltre l'accoglimento delle rivendicazioni salariali, l'impegno governativo alla liberazione di tutti i detenuti politici, compresi gli operai arrestati durante lo sciopero. Piccardi si impegna inoltre ad allontanare le truppe (a Torino il generale Adami Rossi aveva arrestato 53 persone e fatto disporre 4 mitragliatrici per ogni capannone della Fiat) e gli squadristi ancora presenti in fabbrica. Vengono anche riconosciute le commissioni interne, l'organismo operaio di fabbrica sorto nel primo dopoguerra e poi abolito nel '25 dal fascismo.

A parte il riconoscimento di questi successi, si pone però una questione generale: non sarebbe stato più giusto spingere fino in fondo l'agitazione operaia così da imporre «dal basso» l'armistizio, togliendo l'iniziativa alla monarchia? Non si può rispondere a questa domanda senza tener conto della debolezza «obiettiva» del movimento sindacale e politico, dell'ancora fragile suo tessuto unitario (di una unità fra le varie zone oltreché fra le varie tendenze), della caoticità e rapidità, infine, degli avvenimenti.

Resta il fatto che si deve all'intervento dei sindacalisti antifascisti, con l'appoggio degli scioperanti, se infine si aprirono ai «politici» le porte delle carceri e dei luoghi di confino; questo loro ritorno alla libertà, appena in tempo per sfuggire (quasi tutti) alle grinfie tedesche, fu l'elemento essenziale, il dato determinante della vicenda politica successiva, il nucleo intorno al quale ritessere poi e irrobustire, nel fuoco della Resistenza, quel tessuto unitario e l'organizzazione della lotta partigiana sotto un'unica bandiera.