In ballo c'è un intero patrimonio culturale, la memoria sonora e audiovisiva del nostro paese. E non solo. Perché, oltre a istituti prestigiosi come il Centro sperimentale di cinematografia e l’ex Discoteca di Stato, a rischiare la soppressione entro il 2013, se entrerà in vigore il decreto legge 95 del governo, saranno anche decine di consorzi e fondazioni civiche, gallerie e musei sparsi in tutta Italia, come il Maxxi di Roma, la Reggia Venaria Reale di Torino, la Triennale di Milano, nonché una miriade di aziende, grandi e piccole, che svolgono servizi per conto di Comuni, Province e Regioni, tutti aderenti al contratto Federculture: in totale, più di 5.000 addetti diretti, senza considerare il vasto indotto. Il governo giustifica l’ennesima operazione di dismissione pubblica a carattere culturale con la scarsa redditività ottenuta dalle società in questione (come recita l’articolo 4 del provvedimento della spending review, “qualora più del 90 per cento del loro fatturato dipenda dall’ente pubblico di appartenenza”), soprattutto se paragonata a paesi come Francia e Spagna, il cui patrimonio frutta incassi fino a sette volte maggiori di quelli italiani.

“In realtà – osserva Federico Bozzanca, della segreteria nazionale Fp –, l’errore in cui incorrono i tecnici di Monti, oltre a non tener presente l’inestimabile valore di tali istituzioni, è quello di non considerare che la gestione diretta non solo produce incassi – in qualche caso assai cospicui – dalla vendita dei biglietti, ma crea un vasto mercato che dà lavoro a migliaia di addetti. Pensiamo solo a Roma e a quanto gravita attorno al turismo in termini di camere d’albergo, bar, ristoranti”. Per una maggiore valorizzazione di quei beni, gli esperti di Palazzo Chigi pensano a due ipotesi: da un lato, a un sistema di concessioni a privati di pezzi del patrimonio, quelli con valore commerciale, in cambio di un canone di concessione; oppure alla creazione di una società mista pubblica privata per gestire parti del nostro tesoro artistico.

“Dismettere centri di eccellenza dello Stato – commenta Fiorella Puglia, della Fp di Roma e Lazio –, che rappresentano valori storici incommensurabili, non solo causa un depauperamento di quelle strutture prestigiose, ma significa perdere la memoria del bene comune più prezioso, la nostra cultura”. Il sindacato ha già chiesto al governo l’apertura di un tavolo negoziale per una quantificazione dei risparmi ottenuti e poi, eventualmente, concordare misure al fine di razionalizzare le spese. “Fare un’operazione del genere non serve a nulla – prosegue Puglia –, in quanto non produce benefici: anzi, si rischia di ottenere l’effetto opposto. Lo spezzatino di attività deciso per il Centro sperimentale di cinematografia e lo smantellamento dell’ex Discoteca di Stato sono inspiegabili, perché non porteranno alcun beneficio e finiranno con il soffocare le specifiche attività”.

La maggior parte degli istituti a rischio ha sede nella capitale. A cominciare proprio dal Centro sperimentale di cinematografia a Cinecittà (non lontano dagli Studios, occupati da settimane dai lavoratori in lotta per evitarne la soppressione), una scuola d’eccellenza, tra le prime in Europa, che richiama studenti da ogni parte del mondo, dove s’insegna la professione di cinema attraverso corsi di regìa, recitazione, montaggio, sceneggiatura e dove sono gelosamente custoditi circa 150.000 film. Il decreto di revisione della spesa prevede lo spacchettamento dell’attuale fondazione (che raggruppa il centro, la scuola e la cineteca nazionale), con la creazione di un istituto centrale presso il ministero dei Beni culturali (Mibac), separato però dalla cineteca, che a sua volta verrebbe incorporata nella Srl dell’Istituto Luce, già privatizzato.

“Una manovra che servirà a risparmiare pochissimo – stigmatizza Bozzanca –, per un’istituzione che non presenta particolari problemi di bilancio e può vantare un indiscusso prestigio internazionale. Il tutto senza alcuna tutela per l’occupazione”. A perdere il lavoro, fin da subito, sarebbe la decina di dirigenti assieme al cda, mentre gli altri 120 dipendenti, fra registi, fotografi, tecnici, studiosi, ricercatori, amministrativi e figure di coordinamento, dovrebbero transitare sotto l’egida del Mibac, in assenza però di garanzie su livelli retributivi, professionalità e ruoli maturati.

Senza dimenticare che il dl non prevede nulla per quel che concerne la didattica e le sedi distaccate del Centro, situate a Milano, Torino, L’Aquila e Palermo. Non molto dissimile è il discorso per l’ex Discoteca di Stato (dal 2008 ribattezzata Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, Icbsa), su cui il governo Monti ha decisamente calato la mannaia, decretando lo scioglimento di un ente che riceve appena 450.000 euro di finanziamenti pubblici annui e ha in organico 37 dipendenti in tutto (di cui tre “comandati” dal Mibac), decimati nel tempo dai prepensionamenti, che catalogano un patrimonio incalcolabile e unico nel suo genere, composto da più di mezzo milione di documenti, sotto forma di cd, dvd, blu ray, inclusa la storica collezione in vinile e di nastri con inciso la vita degli italiani illustri: in pratica, l’equivalente sonoro della Biblioteca nazionale. Secondo l’articolo 12 del dl, l’Icbsa dovrebbe ora confluire alla competente direzione generale del Mibac, perdendo però la sua specificità, con il rischio di disperdere il prezioso archivio, contenente più di 80 anni di storia della musica.

“Il valore aggiunto di istituzioni come l’ex Discoteca di Stato – spiega ancora Puglia – è che rappresentano una polarità per la documentazione e la catalogazione del settore a livello mondiale, a disposizione di tutti. Ma, stando così le cose, perché una parte significativa di lavoro pubblico che funziona deve essere fatto fuori? In realtà, l’obiettivo vero è il restringimento continuo del perimetro delle attività pubbliche, con il relativo svilimento di chi vi opera”. Lo spettro della chiusura riguarda anche strutture presenti nelle grandi città del Nord. A Torino rischia la Fondazione Torino Musei, che comprende quattro realtà: Palazzo Madama, Borgo medievale, Galleria d’arte moderna e Museo di arte orientale, per un totale di 200 addetti. Ma interessata alle sforbiciate della spending review è tutta una serie di enti collaterali, come l’associazione Torino città capitale, il Museo della montagna e quello del Risorgimento, l’Associazione 150, questi ultimi riaperti o creati ex novo nel 2011, appositamente per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Non solo. Sotto la mannaia del governo potrebbero finire anche il Museo di arte contemporanea, ospitato presso il castello di Rivoli, uno dei più all’avanguardia in Europa, e persino la Reggia Venaria Reale, alle porte del capoluogo piemontese, considerata la Versailles italiana per modello e dimensioni, fatta costruire a fine Seicento dai Savoia, restaurata e aperta al pubblico nel 2009, l’unica realtà a livello nazionale che si autofinanzia per il 50 per cento, quando la media dei nostri musei non raggiunge il 30. “Certo si potrebbe fare molto di più – sostiene Dante Ajetti, della Fp del capoluogo piemonese –, considerando che la Reggia è tuttora un contenitore vuoto, riempito solo ogni tanto da mostre di musei stranieri, con la maggior parte delle opere inutilizzata che giace nei magazzini”.

La struttura dà lavoro a 40 dipendenti diretti, ma sono almeno 200 i collaboratori a tempo pieno. “Siamo riusciti – rileva Ajetti –, caso unico sul territorio, a fare un accordo e ad applicare il contratto a tempo indeterminato con tutte le cooperative che vi operano, unificando così la filiera occupazionale”. Secondo il sindacato, l’operazione da fare, anche per scongiurare lo spettro della spending review, sarebbe quella di far entrare nel consorzio torinese dei musei la Regione Piemonte e, nel contempo, usare bene i fondi europei a disposizione, magari incentivando soggetti privati a investire nel settore.

“Sarebbe importante completare l’informatizzazione di tutto il patrimonio culturale – prosegue Ajetti –, che vuol dire la messa in rete dell’intera catalogazione delle collezioni. Il processo è fermo al 15 per cento del lavoro complessivo e 50 persone lavorano su quei progetti, ma i soldi stanno finendo”. A Milano le istituzioni interessate ai tagli comprendono il Museo della scienza e tecnologia, la Fondazione delle scuole civiche (di cinema, teatro, musica e lingue), il Museo della fotografia e, soprattutto, la Triennale, ricca di eventi e promozioni culturali in Italia e all’estero (ultimamente è arrivata fino in Asia).

“Chiuderla – osserva Emilia Natale, della Fp di Milano – sarebbe un’autentica disgrazia e una perdita incommensurabile per il nostro paese. Lo stesso si può dire per le scuole civiche, un polo culturale di eccellenza frequentatissimo, così come per il Museo di scienza e tecnologia, che svolge un’importante attività educativa per bambini e studenti delle scuole”. Nel complesso, il personale coinvolto ammonta a 250 unità, fra docenti, ricercatori, amministrativi e collaboratori. “Sono tutte realtà già fortemente penalizzate negli ultimi anni dal taglio dei fondi pubblici – aggiunge Natale –: solo le scuole civiche hanno avuto una diminuzione di budget di quasi 4 milioni. Lavorano in condizioni sempre più difficili, quando per farle funzionare bene sarebbe sufficiente operare correttamente e in maniera continuativa. Basti pensare che le scuole civiche da anni sono senza una direzione generale e ricadono sotto l’assessorato alle Politiche occupazionali, una cosa inspiegabile. In questo paese si preferisce non investire sulla cultura, pensando che la resa economica sia scarsa e non immediata”.

Contro la spending review il sindacato sta affilando le armi della protesta: il comparto ha già incrociato le braccia per due ore il 13 luglio, organizzando un’iniziativa presso il Centro sperimentale di cinematografia, e più in generale tutto il settore pubblico è sceso in piazza il 19 con la manifestazione nazionale di Roma davanti a Palazzo Vidoni. La mobilitazione è destinata ad aumentare il prossimo mese di settembre, quando la Cgil organizzerà lo sciopero generale dei dipendenti pubblici.