Beni culturali: la politica del governo non va. Secondo tanti esperti, lavoratori e operatori del settore, il mix di provvedimenti pensati negli ultimi anni dall’esecutivo tradisce un’idea neoliberista che vede la cultura – e tutto ciò che è ad esso collegato – una risorsa da sfruttare economicamente più che da tutelare. A cominciare dalla riforma Franceschini, il cui percorso, iniziato con il Dpcm 171/2014, è arrivato ora al secondo step con il Dm 19 gennaio 2016. Nelle scorse settimane i lavoratori hanno “presidiato” la sede del Mibact, mentre 16 dei 17 sovrintendenti archeologici hanno scritto una lettera di preoccupazione al ministro. Il cuore della riforma, infatti, è – oltre all'istituzione dei poli museali e dei parchi archeologici autonomi – proprio l'archeologia: le 17 sovrintendenze sono state soppresse e accorpate a quelle che tutelano paesaggio e belle arti.

Trentanove in tutto più le due speciali di Roma e Pompei. Per il ministro si tratta di una semplificazione che produrrà un aumento dei presìdi sul territorio e una sua maggiore valorizzazione; per molti altri si tratta, invece, dell’ennesimo colpo inflitto alla tutela e alla conservazione del paesaggio. Ma il punto non è solo questo. La riforma, infatti, si “innesta” su altri provvedimenti potenzialmente dannosi: la riforma Madia della pubblica amministrazione e la modifica del Codice degli appalti che metterebbe a rischio la cosiddetta archeologia preventiva, quella cioè che si fa prima dell’inizio dei cantieri per verificare la presenza o meno di giacimenti culturali da preservare e che, oltre tutto, dà lavoro a molte persone.

Durissimo il giudizio della Cgil. “La riforma di gennaio – spiega Claudio Meloni, responsabile beni culturali della Fp Cgil – completa un disegno che ha al suo centro la destrutturazione di tutte le linee di tutela del nostro patrimonio culturale. Come se, è l’idea strisciante, l'Italia fosse un paese in cui in questi anni c'è stata troppa tutela, che va dunque semplificata e ridotta”. Tra i più attivi nell’osteggiare questo percorso c’è Tomaso Montanari, che insegna Storia dell’arte a Napoli e che sul tema si spende con costanza sui maggiori quotidiani nazionali. “Quello che più preoccupa è la norma del silenzio-assenso contenuta nella riforma Madia – spiega –. Se un’amministrazione pubblica chiede alla sovrintendenza il permesso di realizzare un’opera in un luogo di interesse paesaggistico, e la soprintendenza non risponde entro 60 giorni, il via libero è automatico”. L'altra norma perniciosa della Madia, per Montanari, prevede che le sovrintendenze debbano confluire negli uffici unici del governo sul territorio diretti dai prefetti. Il disegno è chiaro: “Affidare la tutela del patrimonio non più a organi tecnici indipendenti, ma alle prefetture che rappresentano il potere esecutivo. Salta così un altro contrappeso all'arbitrio di potere del governo. Il fine è chiaro: mettere il patrimonio culturale e l'ambiente a disposizione del governo di turno”.

 

E si capisce allora anche la riduzione da tre a una delle sovrintendenze operata da Franceschini: “Una testa si piega meglio di tre”. D’accordo Meloni: “Siamo in presenza di una controriforma che propone un accentramento burocratico delle funzioni dello Stato nelle mani del prefetto che, a sua volta, risponde al Presidente del Consiglio”. Tra l’altro, queste opere di accorpamento hanno seguito spesso criteri discutibili: “Un territorio importante come quello di Taranto, per esempio, è stato privato della propria sovrintendenza archeologica, una delle più antiche d’Italia, in favore di Lecce, un’operazione che grida vendetta”, accusa Piero Sannelli, della Fp Cgil territoriale. E a Taranto, per difendere la propria sovrintendenza, è scesa in piazza tutta la città, mentre in rete ha molto successo l’hashtag #iostocontaranto.

Con il silenzio-assenso contenuto nella legge Madia la tutela del paesaggio è a rischio

Un’idea neoliberista 
Nelle politiche del governo, attacca ancora Montanari, non c’è nulla di sorprendente: “Nella sua prima visita a Napoli – ricorda lo storico dell’arte – Renzi, visitando i cantieri della metropolitana, disse in sostanza che in Italia le grandi opere non si sarebbero più fermate per due cocci trovati sottoterra. Franceschini è riuscito persino a dire che la valorizzazione del paesaggio e del territorio in senso economico sarebbe contenuta nell'articolo 9 della Costituzione, perché nel primo comma sta scritto che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura. Siamo di fronte a una profondissima involuzione culturale”. In questa ottica, è chiaro che l’archeologia è una perdita di tempo e tutto deve essere finalizzato allo sviluppo economico: niente intralci, decisionismo allo stato puro per mettere a valore le proprie ricchezze.

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L’Italia, insomma, come il giardino d’Europa di cui parlava Metternich o, per aggiornarci, a un Sud la cui unica prospettiva sarebbe, secondo Oscar Farinetti, quella di diventare una grande Sharm el Sheikh. “Ma è un’idea sbagliata – dice lo studioso –. Si tratterebbe di un’economia di rendita che, come ha scritto Stiglizt, genera monopoli e regressione sul piano culturale. L’Italia deve vivere di produzione, non sulle spalle del proprio passato. Ovviamente può esistere un'economia indiretta del patrimonio culturale che venga frequentato dai suoi cittadini, ma che sia sana e generi reddito dignitoso: non l’esercito di schiavi senza diritti che ora spesso ci lavora”. Tuttavia, “il patrimonio culturale non serve a tener in piedi l’economia di un paese, ma ad essere cittadini consapevoli e determinati a difendere la propria democrazia”.

Netto anche il giudizio degli archeologi italiani sulla riforma. “La prima criticità sta innanzitutto nel metodo – argomenta Salvo Barrano, presidente dell’Ana  –. Il governo è stato arrogante, intervenendo senza un minimo di concertazione o condivisione: è un'illusione pensare di poter avviare una riforma così profonda senza ascoltare il disagio profondo del personale”. Nel merito, per gli archeologi italiani il problema non sono tanto le sovrintendenze uniche, quanto le altre norme che fanno da contorno. Oltre al già citato silenzio-assenso della Madia, spiega Barrano, una norma gravissima è quella che prevede che “i pareri sugli interventi vengano espressi nella Conferenza a maggioranza. Il che vuol dire che, se per esempio si mettono d’accordo, il capo dei vigili del fuoco, quello dell’agenzia per il territorio e altri tecnici, il parere tecnico archeologico e storico-artistico potrebbero non contare nulla. Si tratta di un aspetto gravissimo che va assolutamente contrastato. Il tutto, porta all’accertamento delle decisioni sotto al prefetto.

In 15 anni il bilancio del Mibact è stato quasi dimezzato

Lavoro: il grande assente 
Il paradosso di tutte le riforme italiane è la cronica mancanza di risorse. Più si sbandierano intenti eclatanti e più questi si iscrivono in un quadro di tagli complessivi inarrestabili. Nel 2000 il bilancio del Mibact era a 2,8 miliardi; nel 2008 a 2 e nel 2011 addirittura a 1,4. Nel 2015 c’è stata una esigua risalita a 1,5, mentre per il 2016 Franceschini ha annunciato un piccolo aumento, ma la verità è che in Italia per la cultura si spende lo 0,30% del bilancio statale, mentre la media europea è 1 e non saranno questi minimi incrementi a farci recuperare terreno. Questo cattivo utilizzo delle enormi risorse generate dal nostro patrimonio culturale, considerato solo una vacca da mungere, ha ricadute pesantissime sul piano occupazionale. Per gli archeologi, bibliotecari, storici dell’arte, archivisti e architetti vige il blocco delle assunzioni e i 500 posti messi a concorso per il 2016 coprono a mala pena il turn over. “Entro il 2020 – riprende Meloni – andrà in pensione più di un terzo del personale del ministero: metà è già oltre i 60 anni. Le poche assunzioni fatte sono state frutto di interventi casuali dovuti a emergenza, come la legge speciale su Pompei, e ora questo nuovo concorso straordinario. Noi chiediamo, invece, di avviare una programmazione serie di entrate e di riprendere un trend di investimenti: solo così i beni pubblici potranno essere davvero un bene essenziale per il paese”.

Anche gli archeologi pagano ovviamente questi ritardi. Solo il 14% di essi lavora presso il ministero, il 27% è a partita Iva, il 7% in impresa o cooperativa, il 14% come collaboratore occasionale. Dato molto importante, il 66% non lavora più di sei mesi l'anno e solo il 17% copre tutto l’anno. Difficile in queste condizioni garantirsi un reddito dignitoso. In Italia, grazie alle sue 15 scuole di specializzazione e ai corsi di laurea si sono formati negli anni decine di migliaia di professionisti che però, riprende Salvo Barrano, hanno ridotte opportunità professionali. “La spesa dei turisti che vengono in Italia per ammirare il suo patrimonio culturale – attacca l’archeologo – è di circa 10 miliardi di euro all'anno. Solo i musei statali registrano 36 milioni di visitatori in dodici mesi. Quindi, tanto denaro, tante risorse anche dall’indotto che è stimato in 80 miliardi di euro l’anno, che però non producono un'occupazione adeguata nei numeri e dignitosa nella qualità. Anzi, da anni assistiamo nel nostro settore a un processo di destrutturazione del lavoro. Al ministro Franceschini, che quando si insediò disse che avrebbe fatto del ministero dei Beni culturali il principale ministero economico, vorrei chiedere: che razza disviluppo è uno sviluppo senza lavoro e buona occupazione? Per me una truffa, che a lungo andare verrà pagata da tutto il paese”.

Carlotta Bassoli è una giovane archeologa free lance. Fa parte di quella generazione, racconta, abituata a fare i conti con tagli ai finanziamenti e con la destrutturazione di cui parla Barrano. “Siamo abituati a lottare per conquistarci uno proprio spazio – racconta –. La maggior parte di noi  lavora come freelance, collaborando con le soprintendenze e anche con le imprese private. In questo quadro difficile, la riorganizzazione in atto del ministero apre ulteriori incertezze. Perché se si riduce la tutela va da sé che si ridurranno anche tutti quei lavori ad essa collegati alla tutela”. In questo contesto, denuncia Bassoli, “è davvero grave il bando per il servizio civile nei beni culturali, con il quale 1.000 ragazzi verranno impiegati per svolgere mansioni, come le nostre, per le quali ci vuole preparazione e competenza specifica”. Giovani volenterosi al posto di professionisti precari. È questo il valore che il governo sembra dare alla tutela delle immense ricchezze che abbiamo avuto la fortuna di ereditare.